La piazza della mia Ariano

0
2960

Il verbo greco agorazein non si può tradurre in italiano ma in pratica vuol dire “jammo a chiazza a verè che si rice”. Quell’andare in piazza importato dai meridionali dagli antichi greci è oggi praticamente impossibile. Tante piazze sono vuote, la piazza della “mia” Ariano lo è ancora di più.  Il vuoto è la parola chiave per descrivere le comunità attuali. Quella piazza luogo di incontro, di chiacchiera, di caffè è oggi un ricordo calato nella nostalgia ma è anche la speranza del prossimo domani. E’ in quella piazza che gli arianesi si ritroveranno per continuare la loro quotidianità. Quand’ero ragazzo la passeggiata d’obbligo con qualsiasi temperatura era “chiazza-chiazza ferrara”, non via D’Afflitto un nome nobile che nulla ci diceva. La fermata altrettanto obbligatoria erano i portici di Giorgione luogo dell’anima, dell’adolescenza, dei primi baci.  Ariano è cambiata come è logico che sia per una comunità che ha subito le lacerazioni del terremoto del 1980. Oggi l’altra ferita si chiama coronavirus.  Tutti a casa in quarantena come previsto dall’ordinanza regionale. Dal male se ne esce così evitando i contatti, rinunciando a quello che più di bello c’è: l’abbraccio, la parola, l’incontro con l’altro. Un sacrificio necessario ed indispensabile per evitare il contagio ed aiutare chi sta combattendo tutti i giorni contro il male: medici, infermieri, operatori sanitari. Loro sono in prima linea anche e soprattutto ad Ariano.  Immagino da Roma uno dei luoghi più belli la Villa Comunale, rifugio per chi vuole passeggiare in tranquillità e per i bambini che la occupano per giocare. Me la vedo davanti agli occhi vuota e tranquilla. Il castello a far da custode al silenzio. D’estate, quando più di altre volte frequento Ariano, la Villa è davvero un luogo particolare.  Il giro delle torri è un continuo incrociare sguardi e contatti. Persone che rivedi una volta all’anno ma basta un attimo per ritrovare la sintonia. La vita ha portato molti di noi a stare lontano dagli affetti familiari, dai parenti, dagli amici. Quando ci parliamo al telefono tutti ci diciamo che stiamo vivendo una vicenda senza precedenti. Un fatto inedito chiusi nelle nostre case a vivere una vita che non è la nostra perché ogni essere umano ha bisogno dell’altro. Dopo il terremoto del 1980 il senso di solidarietà  avvicinò le persone, ci spinse ad una unità di intenti che fu la carta vincente per riprendere una vita normale. Anche allora chiusero le scuole e tante altre attività. Non c’erano i social e si poteva uscire seppur con grande paura.  La calamità di allora si rivelò un momento di formazione per tanti di noi. Oggi il virus ci sta cancellando una piccola parte della nostra esistenza quotidiana ma potrebbe regalarci una società meno divisiva facendo sparire le categorie dell’avversario o del nemico che come si vede in questa fase sono sospese. Il 16 marzo del 1978 fu rapito Aldo Moro poi barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse. Anche allora l’Italia attraversò momenti di paura legati al terrorismo che uccideva senza nessuna pietà. Nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari Moro descrisse lucidamente queste paure sostenendo che “se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà. Camminiamo insieme perché l’avvenire appartiene in larga misura ancora a noi”. Queste parole si adattano anche alla situazione di oggi e alla mia Ariano che vive questo tempo con responsabilità e coraggio.

di Andrea Covotta