Adriano, capitano coraggioso

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Il 30 novembre del 2007 ci ha lasciato Adriano Lombardi. Il capitano della serie A colpito da una terribile malattia. Quel fantastico Avellino che per dieci anni ci fa sognare entra in campo sulle note di Yellow Submarine dei Beatles. Una musica che diventa la colonna sonora di una generazione di tifosi. Un’altra canzone del mitico quartetto di Liverpool, Twist and Shout, è cantata a squarciagola dai tifosi del Motherwell. Una squadra di una cittadina quasi sconosciuta nel nostro paese che partecipa al campionato scozzese di serie A con una particolarità quasi unica: i padroni del club sono i tifosi. Un mix di magia e fantasia al potere nel calcio tutto business di oggi. 2000 soci hanno dato vita ad una sorta di cooperativa garantendo la sostenibilità del progetto con un piano di donazione mensile di 10 sterline a testa. L’acquisto della squadra è costato pochissimo. Solo una sterlina versata simbolicamente al vecchio proprietario. Cifre irrisorie se paragonate a quello che accade nel calcio multimilionario della vicina Inghilterra dove i “padroni” dei club sono sceicchi arabi come nel Manchester City, multinazionali americane nel caso del Manchester United o “paperoni russi” come Abramovich al Chelsea. Ma anche a casa nostra Inter e Milan sono in mano a proprietà cinesi, e americana è invece la Roma. Un calcio sempre meno questione di cuore. Motherwell è la favola di una città che una volta era una delle capitali dell’acciaio ma la crisi degli anni ’80 e ’90 porta alla chiusura dell’industria siderurgica locale. Come non vedere nella crisi della città scozzese la nostra crisi che qui, ad esempio, si chiama Irisbus. La rinascita passa anche dallo sport frivolo e leggero, sognando le imprese del Leicester di Ranieri che vince il campionato inglese o del Cagliari di Gigi Riva che trionfa nel lontano ’70 in Italia o del Verona di Bagnoli che a sorpresa porta il primo scudetto nella città di Romeo e Giulietta nel 1985. Il calcio è una questione di identità, di simbiosi con una comunità ed è per questo che il paragone tra il “nostro” Avellino e il lontano Motherwell è affascinante. E’ la dimostrazione che un altro calcio è possibile, anche cantando sulle note dei Beatles e attaccandosi ad una maglia. La dieci di Lombardi è stata quella simbolo del primo campionato in serie A. La sua classe, il suo modo di incoraggiare i compagni in difficoltà che accettano i consigli da chi è arrivato in serie A solo a 33 anni. Salta l’esordio dell’Avellino a San Siro contro il Milan per colpa di un documento dimenticato. Una vera ingiustizia. E’ in campo però da vero capitano in tutte le gare di quella mitica stagione. Nel girone di ritorno l’Avellino guidato da Lombardi batte al Partenio sia il Milan che vincerà lo scudetto che l’Inter e pareggia magicamente 3-3 a Torino contro la Juventus. Gare che di diritto sono entrate nel cuore di ogni tifoso irpino. E tutti noi di quella generazione ricordiamo con affetto il nostro capitano. Lui il guerriero colpito dalla Sla che improvvisamente non riesce più a camminare e a muovere le mani. In una intervista rilasciata nel febbraio del 2003 ad Emanuela Audisio di Repubblica, raccontava “ho giocato con Tardelli e Vierchowod, ma adesso non ce la faccio nemmeno a grattarmi la testa. Lo devo chiedere alle mie bambine. Ho fatto i corsi di allenatore con Lippi e Scoglio, ma ora non riesco più a girarmi nel letto. Lo devo chiedere a mia moglie. Ho giocato 500 partite di campionato, quasi tutte con la fascia da capitano, ora non posso giocare più a niente, nemmeno a vivere”.
edito dal Quotidiano del Sud