Alla radice della violenza giovanile

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Di Gianni Festa

Resto basito. Sarà pure per il fatto che appartengo a una generazione nella quale la stagione dei doveri era per tutti un riferimento certo e rigoroso, ma rispetto a quello che accade oggi nel mondo giovanile non riesco proprio a trovare una giustificazione. Mi riferisco, in particolare, a quanto è avvenuto ad Abbiategrasso dove uno studente ha accoltellato in un’aula della scuola la propria insegnante, ferendola in modo grave solo perché temeva di esse- re interrogato, e a Napoli dove due ragazzi, uno dei due minore, hanno fatto fuoco con una mitraglietta ferendo una ragazzina che ha lottato tra la vita e la morte, riuscendo poi a salvarsi. I due episodi, avvenuti in zone distanti tra loro e con diverse motivazioni, non sono affatto straordinari, pur nella loro violenza, ma rientrano ormai in una casistica dell’ordinario agire di una generazione per la quale i valori della vita e del rispetto sono a dir poco un optional. Sono convinto, pur non essendo uno psicologo, ma avendo un lun- go vissuto, che la responsabilità di quanto avviene tra i giovani di oggi è da ricercarsi nella complessità del mondo in cui viviamo. Mentre il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale è avvenuto con ritmi lenti, ma controllati, il successivo approdo alla società tecnologica ha avuto genesi in tempi rapidissimi, cancellando le regole del buon vivere e non consentendo alle agenzie sociali, famiglia, scuola e chiesa, di adeguarsi ai nuovi ritmi frenetici. Per cui venendo meno la stagione dei doveri si è infranto anche il valore della libertà inteso come rispetto dell’altro. Ovviamente non bisogna generalizza- re. Di questa generazione fanno parte anche affermati ricercatori, giovani di buona edu- cazione come i tanti ragazzi che militano nel volontariato e nella solidarietà, nell’associa- zionismo proiettato a raggiungere il bene comune. Un rapido esame della velocità del cambio sociale e dei mezzi che lo hanno determinato è utile per la comprensione del mutamento. Sul banco degli imputati salgono i modelli violenti e distruttivi veicolati dai videogiochi, cartoni animati, serie tv e tutto quello che contribuisce a formare l’immagi- nario entro il quale i ragazzi radicano le loro convinzioni e i comportamenti conseguenti. Questi contenuti sono diventati di facilissimo accesso con l’uso smodato del telefonino. Esso deborda nel momento in cui suggerisce l’emulazione di comportamenti violenti e aggressivi. Accompagnano una crescita disordinata, una rottura tra l’età evolutiva e la formazione di una psiche equilibrata e forte, falsano la realtà perché tutto pare possibile e a portata di un clic. Chi controlla? Quali sono le regole dell’uso del telefonino per la for- mazione individuale? Ecco un clamoroso caso in cui la tecnologia che avanza rapida- mente non trova un contraltare che ne regoli l’utilizzo. Senza un ordinato controllo, si assiste allora ad una gestione della tecnologia che può diventare anche pericolosa come la guida dell’auto mentre si utilizza il telefono o l’emulazione di fatti violenti che finiscono nelle cronache nere dei giornali. Qui non è il caso di demonizzare le nuove tec- nologie, ma di aiutare a riflettere l’utente nel farne un uso responsabile. Altro capitolo è quello del mondo dell’intelligenza artificiale e della robotica, i cui effetti sono ancora in fase di sperimentazione con l’obiettivo di raggiungere un necessario equilibrio. Queste mie riflessioni che hanno avuto origine da due fatti sconvolgenti di criminalità giovanile pongono una domanda: cosa si fa per evitare che la violenza giovanile possa produrre ulteriori danni sociali? La risposta va ricercata nel ruolo che svolgono la politica e la società. La prima dando risposte al disagio giovanile con strumenti di partecipazione e di impegno a partire dal lavoro e dall’occupazione e nuovi concreti strumenti per la forma- zione professionale; la seconda riscoprendo le regole semplici e fondamentali: potenzia- re l’attenzione della famiglia verso i minori e la loro educazione, rafforzare la scuola che da occasione di preparazione a un mestiere o una professione deve trasformarsi in una fucina di educazione alla vita, a partire dalla gestione di sentimenti e pulsioni da cui la violenza si origina. Così anche la chiesa, come Papa Francesco insegna, deve tornare a vivere in trincea.