di Mino Mastromarino
C’è qualcosa che non convince del dibattito pubblico circa l’autonomia differenziata. Risulta unidirezionale e inquinato da sterile pregiudizialità ideologica, da pericoloso opportunismo e da corto sguardo politico. Chi scrive, visto quanto accaduto durante l’emergenza Covid e quanto accade per i sempre più frequenti disastri ambientali e sociali, è per l’abolizione delle regioni ( che tutt’al più andrebbero trasformate in articolazioni decentrate dello Stato); e per la contestuale ricostituzione delle province, quali enti dotati delle giuste entità e prossimità territoriali in rapporto alle esigenze dei consociati, magari con funzioni amministrative più strutturate ed estese di quelle vigenti in epoca anteriore alla scriteriata riforma Delrio.
La legge ordinaria n.86 del 19 giugno scorso, di attuazione della riforma costituzionale del 1999, prevede il trasferimento di diverse competenze statali alle Regioni, facoltizzandole a trattenere il gettito fiscale, da non ripartire più su base nazionale. Secondo un sondaggio effettuato poco prima dell’approvazione di questo provvedimento legislativo, la maggioranza degli Italiani (53%) riteneva che l’autonomia differenziata sia inopportuna e sbagliata, perché favorirebbe solo le regioni più ricche, nonostante la promessa garanzia dei livelli minimi essenziali di prestazione nei servizi essenziali. Da qualche giorno, sono stati depositati i quesiti per il referendum abrogativo, con il conforto del numero record di un milione e trecentomila firme.
L’argomento forte degli oppositori è che il (già) grande divario Nord-Sud, per effetto della disposta devoluzione legislativa e soprattutto nei settori della sanità, dell’istruzione e dei trasporti, aumenti ancora di più, fino a diventare ragione di disgregazione dell’unità nazionale. Preoccupazione cui subentra la speranza concreta di inapplicabilità del decentramento ( o certezza del suo fallimento) per mancanza di copertura economica dei Lep, i livelli essenziali di prestazione. Essi costituiscono i requisiti minimi di servizio da garantire in modo uniforme in tutto il territorio nazionale, per assicurare i diritti sociali e civili contemplati dalla Costituzione. Dovrebbero essere stabiliti entro 24 mesi dall’intervenuta promulgazione. Il nodo per la loro determinazione risiede nell’assunzione o meno del criterio della spesa storica, la cui eventuale ricezione da parte del legislatore avvantaggerebbe ulteriormente – ed in maniera vieppiù intollerabile – le regioni settentrionali.
Senza contare la questione delle materie il cui esercizio autoctono non è ancorato alla previa approvazione dei Lep. Sotto il profilo dell’uguaglianza sostanziale e dell’unità nazionale, un disegno riformatore di tale portata sociale impone di assicurare a tutti gli Enti destinatari, cioè a tutti i cittadini – a prescindere dalla loro collocazione geografica – paritarie condizioni di avvio. Se questo non è dato, il varato cambiamento istituzionale è inagibile e inaccettabile.
In ogni caso, la sanità e la scuola dovrebbero essere sottratte al potere legislativo, anche solo concorrente, delle Regioni. Il posizionamento dei partiti, dettato dalla paranoia della contingenza e dal protagonismo di coalizione, complica – se non impedisce – la piena comprensione dell’autonomia regionale allargata, e dei probabili effetti, non necessariamente negativi, anche e specialmente in ordine alla cosiddetta ‘questione meridionale’.
Ma che penserebbe Guido Dorso della riforma costituzionale del titolo V e della correlata legge di esecuzione ?Il maestro del pensiero meridionalistico elaborò il concetto di autonomismo, come paradigma dell’agire politico riformista di una nuova classe dirigente, in quanto idoneo al superamento dell’arretratezza e del sottosviluppo meridionali.
Dorso sostenne “ la necessità da parte del popolo meridionale di conquistarsi il self-government, e elaborarne le soluzioni pratiche in contraddizione aperta a tutte le esigenze del paternalismo. Ora, il self-government, prima che nelle istituzioni e nelle leggi, deve nascere nello spirito dei cittadini, è funzione critica di distacco da ogni forma di autorità che non sia l’autorità della libertà. Se il popolo meridionale è finalmente compreso della necessità di fabbricarsi da se stesso il proprio destino e di abbandonare la triste abitudine di attendere dalla Provvidenza divina o dal governo la carità, questo momento non dovrebbe passare invano e la lezione fascista dovrebbe giovare a qualche cosa. I migliori figli del Mezzogiorno, che vivono ogni giorno in se stessi questa terribile tragedia politica che è la questione meridionale, aspettano con ansia i segni augurali per iniziare questa colossale impresa di civiltà. Ma l’autonomismo non è né particolarismo né separatismo. È invece una dottrina politica diretta a raggiungere una piú intima e profonda unità…La soluzione del problema meridionale quindi non potrà avvenire se non sul terreno dell’autonomismo. Esso non deve confondersi col federalismo perché vuole correggere le soluzioni storiche senza rimettere in onore l’idea di una federazione di Stati, fallita attraverso tutto il Risorgimento, e che, se si tentasse oggi, sarebbe un esperimento di cui non è possibile calcolare i vantaggi e piú ancora gli svantaggi. Non deve poi l’autonomismo confondersi con il regionalismo perché esso crede che le cause del male siano piú profonde del cattivo ordinamento istituzionale, e che il nascere dello Stato burocratico-accentratore costituisca storicamente il risultato della immaturità italiana alla lotta politica, piuttosto che la causa di tale immaturità, e che l’accentramento sia destinato a scomparire non appena l’azione dei partiti di massa controbilancerà l’importanza eccessiva assunta dalla pubblica amministrazione in Italia. ( ne La rivoluzione meridionale, Einaudi , 1955, pagg.216-220).
La lucida prosa dorsiana distingueva l’autonomismo dal federalismo e dal regionalismo. Tuttavia, non può negarsi la stretta parentela – non foss’altro che per l’indirizzo politico sotteso – tra il primo e l’odierna autonomia differenziata. Perciò, sono sicuri segni di incoerenza ( e di confusione interpretativa) l’ adesione e il richiamo al meridionalismo per contrastare la enorme estensione del potere legislativo prevista in favore delle regioni a statuto ordinario. Così come sussiste un serio problema di credibilità per la maggior parte di coloro che oggi (non) combattono la dilatazione indiscriminata dell’autarchia regionale. Sia l’autonomismo che l’autonomia fondano il proprio statuto semantico sul comune principio di responsabilità politico-istituzionale. Ossia sull’obbligo degli eletti di rispondere ai propri amministrati della gestione delle risorse economiche autoprodotte da un territorio. E’ questo il tema assente, anzi negletto dal dibattito pubblico, che infatti risulta polarizzato sulla garanzia dei Lep e sulle modalità di ripartizione regionale del gettito fiscale: cioè sulla determinazione delle risorse che ogni regione ha la possibilità di gestire e amministrare.
Chi ha a cuore la riduzione o l’annullamento del divario Nord-Sud dell’Italia non dovrebbe limitarsi a giudicare la bontà della riforma soltanto in base ai Lep ovvero alle modalità di redistribuzione regionale delle entrate fiscali. La rivoluzione dorsiana puntava sul cambio di mentalità della nuova, attesa classe dirigente di provenienza endogena, indotto dall’auspicata assunzione di responsabilità dei governanti, tale da promuovere l’abbandono delle pratiche trasformiste e clientelari, in quanto incompatibili con il dispositivo autonomistico. Allo stesso modo, mutatis mutandi, l’avvenuta estensione dell’autonomia regionale configura ( dovrebbe configurare) il perimetro della ineludibile rendicontazione politico-finanziario dei decisori locali, spingendoli alla elaborazione e attuazionedi programmi di sviluppo territorialmente consono, verosimile e dall’esito agevolmente verificabile dagli elettori.
Non è un caso che l’attuale classe dirigente delle aree meridionali si sia in buona parte concentrata sulla verifica di copertura economica dei Lep e sul meccanismo automatico di perequazione redistributiva delle risorse finanziarie statali. Per la verità, il concetto di autonomia differenziata si dispone anche all’armonia con il pensiero meridiano di Franco Cassano. Ossia con “ quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera. Il pensiero meridiano infatti è nato proprio nel Mediterraneo, sulle coste della Grecia, con l’apertura della cultura greca ai discorsi in contrasto, ai dissoi logoi “.
Lo sforzo del mai abbastanza compianto intellettuale ha prodotto un fecondo ripensamento del Mezzogiorno, con formula originale e in contrapposizione alla unilaterale tensione mimetica che lo ha corrivamente orientato verso una caratterizzazione per differenza (in peius ) rispetto al Settentrione. Secondo il perspicace sociologo, occorre rovesciare la postura ‘debitoria’ del Sud, secondo cui ‘deve’ diventare altro, ossia imitare e inseguire il modello nord-europeo. In uno alla lentezza e alla centralità del Mediterraneo, il progetto del Nostro colloca in via prioritaria proprio l’autonomia, intesa come la sfida del Meridione ad autodeterminarsi (almeno) culturalmente. La precipua finalità è – dovrebbe essere – quella di « restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato solo da altri ». O no ?