Autonomia tra limiti e orgoglio 

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Ma ha proprio tutti i torti Luca Zaia, governatore del Veneto, con quanto afferma nella sua lettera ai meridionali ai quali fa rilevare i limiti del mancato sviluppo del Sud? Probabilmente no del tutto. Riflettiamo su alcune sue considerazioni. Non è forse vero che “l’autonomia come egli scrive- fa paura a molti amministratori del Sud, perchè essa è una vera assunzione di responsabilità?” E ancora. Come si fa a dargli torto quando sottolinea che molto spesso nel Mezzogiorno le risorse disponibili, in particolare quelle pubbliche, vengono sprecate senza alcun vantaggio per i cittadini? Su questo è opportuno riflettere sull’uso, quando si fa, delle risorse europee nel Mezzogiorno.

Andiamo oltre. Scrive Zaia nella lettera ai meridionali che il Veneto è la prima regione turistica d’Italia con 70 milioni di presenze e 17 miliardi di fatturato. E si chiede “se i mari e i panorami del Sud non meritano forse altrettanto?”. In realtà gli interrogativi oltre ad essere utili per riconsiderare i motivi del divario Nord- Sud, hanno il merito di accendere i fari sulla complessità dell’unità del Paese e sui limiti del Mezzogiorno, incapace allo stato di proporre un’alternativa alla proposta autonomista delle regioni del nord. Un nobile tentativo in tale direzione viene dalle acute riflessioni di Gianfranco Viesti, studioso della questione meridionale, che nel suo recente saggio (“Verso la secessione dei ricchi?” editore Laterza) analizza, con dati storici e scientifici, le ragioni che per effetto dell’autonomia differenziata penalizzerebbero il Sud.

Il suo pensiero conduce all’assenza di solidarietà delle regioni ricche e all’egoismo che pervade la proposta autonomistica. A parer mio, sia nella denuncia di Zaia che nella riflessione di Viesti non risulta un elemento di notevole importanza: il ruolo della classe dirigente. E’ su questo, come ho avuto più volte occasione di riflettere, che le distanze nord-sud aumentano.

Ciò che è assente, fatta qualche rara eccezione, è il protagonismo orgoglioso del popolo meridionale, la sua ostinata volontà a farsi del male, incapace di liberarsi da quel vittimismo straccione che veleggia tra il fatalismo e l’assistenzialismo. Non serve, a mio avviso, piangersi addosso. Ciò legittima l’emarginazione e diventa alibi del tradimento del mandato di rappresentanza della classe dirigente politica, incapace di rappresentare nelle sedi della decisione le istanze per la crescita del Sud. Se a ciò si aggiunge il ruolo che svolge buona parte degli intellettuali meridionali il quadro si completa. Per troppo tempo, infatti, del Sud si è scritto in termini devastanti. Difficilmente sono state evidenziate le potenzialità di un territorio che dispone di unicità sul piano internazionale. E qui tornano i limiti della classe dirigente e del cattivo uso che essa fa del mandato di rappresentanza.

E’ storia antica quella che fa riferimento a fenomeni mai debellati come il clientelismo e il trasformismo. Nelle cui pieghe si nasconde la corruzione. La cattura del consenso per fini personali non fa giustizia dell’impegno corale per l’interesse generale. Purtroppo è deprecabile abitudine una generica rivendicazione dello sviluppo meridionale senza rimuovere le cause che lo ostacolano. Questo spetta al governo nazionale, ma soprattutto ai meridionali.

E’ urgente e non più differibile che la classe dirigente meridionale si affranchi dal super potere nefasto della criminalità organizzata. Oggi essa assedia quasi tutte le regioni del Sud. Occorre rispondere costruendo una nuova coscienza civile, impegnandosi, con decisione e fermezza, ad affrontare una grande questione morale. In altre parole si tratta di recidere il legame esistente tra potere criminale e istituzioni. E’ questa devianza la radice del male del mancato sviluppo. Al riaffermarsi della questione morale occorre, però, accompagnare una efficace azione di buona politica che sappia far valere merito e competenza oggi non sempre (o quasi mai) rilevabili nelle scelte compiute. Solo in questo modo si sconfigge quell’antico rito, soprattutto dei giovani meridionali disoccupati, di inginocchiarsi per sopravvivere.

La questione che si pone è, quindi, di ordine culturale. Riguarda le più importanti agenzie della società: la scuola, la famiglia, la chiesa, le forze sindacali e sociali. A tal proposito io credo che non serve, o non basta, evocare figure simbolo del pensiero meridionalista. Mi riferisco, in particolare, all’attuale ricorso che, dall’estrema destra all’estrema sinistra, si fa dell’impegno di don Luigi Sturzo. E’ evidente, e a volte irriguardosa, la strumentalizzazione del suo pensiero e della sua azione per giustificare la propria posizione nei confronti dell’autonomismo. Che è cosa buona e giusta se salvaguarda i valori della solidarietà, rafforzando l’unità del Paese, garantendo la convivenza civile. Evitando una frammentazione piegata solo sull’egoismo territoriale.

Questo è il vero compito, a mio avviso, che ha di fronte la classe dirigente del nord e del sud. La difficoltà è fare convergere le tesi di Zaia e di Viesti (che nel merito propongono, sia pure con percorsi diversi, lo stesso obiettivo unitario) attraverso il dialogo e la mediazione. Soprattutto attuando una buona politica nell’interesse dell’intero Paese.

di Gianni Festa