Bassolino, Napoli e le scarpe di Berlinguer

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In un giorno di primavera degli inizi degli anni Ottanta, Antonio Bassolino si recò di primo mattino a casa di Enrico Berlinguer, che gli voleva parlare urgentemente e riservatamente. Quando il Segretario del Partito Comunista Italiano gli aprì la porta, si accorse dello sguardo sorpreso di Bassolino, attirato dalle sue scarpe alla moda e, come a scusarsi, gli disse: “Me le hanno regalate le mie figlie. Io, per farle contente, le metto quando sto a casa”. Questo piccolo ma significativo  aneddoto dimostra, con una delicatezza tutta sua, quale fosse la serietà, il rigore già nel proprio vissuto personale e quotidiano, che ispirava il modo di essere uomo tra gli uomini di Berlinguer e rendeva splendida, unica e inconfutabile la sua figura  nella lotta contro la degenerazione della politica, il suo scollamento dai bisogni delle  persone comuni e della povera gente, l’indifferenza cinica  dei partiti di governo  ai “minima moralia” e, cosa, se possibile, ancora più grave, ai diritti, alle speranze, ai sogni dei giovani e delle donne. Quest’aneddoto mi è tornato in mente pensando a quante paia di scarpe avrà consumato Bassolino girando da un numero ormai incalcolabile di mesi per le strade, i vicoli, le piazze, i quartieri popolari di Napoli. E ho concluso che, in realtà, non le ha le mai cambiate, le scarpe: sono sempre quelle che Berlinguer, uscendo di casa, calzava e che, idealmente e politicamente,  gli ha lasciato in eredità con il gravoso e nobile fardello dell’impegno, costante, lucido e appassionato,  per le cause giuste e le belle  bandiere.

Si capisce così perché quest’uomo dalla bianca chioma, dal volto assorto e appena accennato al sorriso, camminando “passo dopo passo”, come ama dire lui,  sembra quasi il mitico cavaliere degli stivali delle sette leghe, tante quante ne faceva con un solo passo. Altrimenti, non si spiega la distanza stellare che ogni giorno di più lo divide  dal  ceto politico napoletano. Né deve sorprendere che tanti napoletani, di tutte le età, di tutte le fedi politiche e dei più vari ceti sociali, specie popolari e intellettuali,  vogliono incontrarlo, parlargli, stare a sentire che cosa ha in mente per Napoli, una volta eletto Sindaco, e lo chiamano “Sindaco”, il Sindaco per antonomasia di Napoli. Se vogliamo dirla altrimenti, Bassolino da quella storia che non c’è più e da quell’uomo che cominciò drammaticamente a morire a Padova in una fredda sera di giugno degli anni Ottanta ha ereditato lo spirito, che è il cuore che ragiona e la ragione che ha cuore.

Alla domanda: “Chi glielo fa fare?”, che pone chi non sa che cosa obiettare al valore della sua candidatura a Sindaco di Napoli, è facile rispondere: è una domanda che può essere posta solo da chi  non sa che cosa vuol dire corrispondere a un dovere.  Il dovere che Bassolino sente come suo proprio è quello di “dare una mano”, dice lui, ovvero di lavorare in modo appassionato e incisivo, per riaggiustare Napoli, che egli tanto ama, ma che si è scassata”, anzi è stata scassata da tanti anni di malgoverno cittadino e dalla pandemia, che ha ridotto troppi napoletani alla fame e alla disperazione. Ha titolo per farlo. E’ stato il migliore sindaco di Napoli, incarna un “passato gravido di futuro”, il suo è un “ritorno al futuro”, quello del Rinascimento napoletano che vuole riprendere e svolgersi.

di Luigi Anzalone