“Bestia divina” l’arte in versi di Mario Fresa

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di Monia Gaita

“Bestia divina”, il nuovo lavoro poetico di Mario Fresa, editore La Scuola di Pitagora 2020, è attraversato da un irriducibile rovello interiore, coadunare in temeraria sintesi, piano divino e sfera quotidiana. Una doppia e aguzza ansietà: mandare giù un bel sorso d’ infinito e sporcarsi al contempo col fango della materia. Un’accensione di vita che non elude il contagio con la realtà, ma stenta ad afferrare il filo di salvezza contro la grande catapulta del destino. I piedi della morte paiono calpestare il suolo delle pagine fin dalla prima composizione della raccolta:«Dice che usciamo insieme, carnivori e infelici:/così ci scontano gli anni a metà./Siamo lo sguardo e il pescecane./Questa morte mi è costata sette chili./Per respirare,

dunque, lo consolo; la lascia un po’/di giorni dietro di noi, e clic./Poi, di sicuro, sparirà». A restaurare il naufragio offrendolo all’antidoto di una conversione, è la cinghia che ci lega al mondo(p.7):«Il terreno, come d’incanto, ci spinge/ a essere vivi». Ma il Dio e la bestia che, in adunca prossimità, dimorano in ciascuno di noi, si scambiano di posto, operano continue trasmutazioni e febbrili intrecci(p.8):«pestare notte,/mettere l’ombra a posto; sono mantelli e/piccole sventure. Cadiamo da un odore familiare/a un gesto fuori via; finito nello stomaco perché», a p.14:«Resti alla luce di questo corpo d’attesa./È questo il labbro senza chiavi,/il soffio della serra che le confonde dentro?/E poi c’è questo sicario che parla/proprio come me/che ha il nome uguale al mio…» La morte irrevocabile è disseminata nel testo in un’ontologia straziantemente negativa. Quando il grido rauco del vuoto con le sue logge crestate di nero, promana una voce sola, aggrondata e possente, si manifesta, in comunione con le cose, la consistenza del bene(p.32):«Sarai con noi finché io stesso chiamerò a turno i veloci/passeggeri per rivedere, anche per poco, il tuo volto smarrito dal Casello. Per essere con te; o ringraziarti di/essere stato un padre più mistero che altro;/per te ho serbato una violenta fedeltà». Il padre del poeta diventa una presenza arcaica e leggendaria, mitica, onirica e sacrale che scuote i muri della perdita e ne propaga, ricostruita ed eretta, la memoria levigata e abbagliante. Con analoghi e robusti pali di ammarraggio, zampilla dai versi, fungendone da dedicataria e angolo di rotta, la figura della madre, che sa sbrinare le paludi del distante in un arco affettivo alberato di vero. «Quando si sta a contatto con i vivi —realizza il poeta a p.33—si è sempre davanti alla fine di qualcosa». E ancora a p.39:«quante lettere bisogna contare prima dell’ultimo momento?» Ecco che lo spettro dell’angoscia esala dalle dune degli accadimenti, spilla la botte delle ore facendone uscire a fiotti fragilità ed assilli. Mario Fresa sperona la bestia e il divino che siamo, ne ribalta le placche, redento dall’evidenza che non esiste alcuna erogazione di perfetto e che le squame dell’instabilità rivestono e spennellano ogni dominio d’assoluto. E allora qual è il compito della poesia? La poesia ci strappa alla bruma dei gesti sempre uguali, scivola via dall’argilla dell’assuefazione, prova a sostenere l’impeto della malattia e dell’imprevedibile. Ci educa a guardarci attorno, ci addestra a traslocare consapevolmente negli eventi. E soprattutto ci lascia sostare nel linguaggio, nelle fessure di certi attimi rivelatori, nell’acqua di sorgente di ciò che siamo, di ciò che siamo stati. È la parola a sovrastare lo spazio, a presidiare fiduciosa il divenire, a trovare nel lungo tragitto dal porto del silenzio a quello del dire, una scialuppa di motivi per far emergere e durare ciò che ci sembra degno di emergere e durare. Nel dubbio-zuffa se scegliere la bestia o la divinità, l’unica permanenza possibile che eleva l’urto e la ferita a guarigione è(p.39) “Fantasmare, fantasmare sempre”.