Cacciari: nel Cantico dei Cantici l’incontro tra fede e ragione

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Il confronto alla chiesa di Rione Parco con il giovane studioso Limone

 

Resta un enigma, come diceva Sant’Agostino, "Il cantico dei cantici", al di là delle interpretazioni legate a tradizioni differenti che hanno cercato di svelarne il mistero. Lo ribadisce il filosofo Massimo Cacciari, nel suo confronto alla chiesa di Rione Parco, gremita ancora una volta in ogni ordine di posto. Questa volta la lezione, introdotto da don Emilio Carbone, si sviluppa attraverso un dialogo con Vito Limone, allievo di Cacciari, irpino doc, dottorando di filosofia all’Università San Raffaele di Milano. Un dialogo che ha il pregio di chiarire concetti certamente complessi, che richiamano idee chiave del pensiero cristiano. Punto di partenza della discussione il "Cantico dei cantici", testo chiave della cultura giudaico-cristiano, risalente secondo la tradizione al X secolo a.C, opera di re Salomone, ma in realtà scritto in lingua greca nel II secolo a.C. e solo successivamente tradotto in ebraico. E’ nella pregnanza del testo, canto d’amore di uno sposo e di una sposa, la forza del Cantico dei Cantici, Limone e Cacciari sottolineano come si sia caricato nei secoli di un significato simbolico-spirituale, espressione secondo la tradizione ebraica del rapporto tra Dio e popolo ebraico, attraverso il ricorso a metafore nuziali, così diffuse anche nel Vecchio Testamento. E’ con Origene, però, tra le voci più autentiche del cristianesimo delle origini – a cui Limone ha dedicato un saggio prezioso – che acquista un ulteriore significato, legato al rapporto tra l’anima e il Cristo. Del resto, ribadisce Limone, se la scrittura sacra è rivelazione di Dio, non può che custodire significati molteplici. Cacciari sottolinea come la sfida sia quella di leggere oggi i testi rivelati, nella consapevolezza che “la parola divina cresce con la nostra lettura”, che esiste, dunque, un legame inscindibile tra significato letterale e simbolico nella lettura del Cantico dei cantici. La novità, spiega il filosofo veneziano, è nella dimensione dell’amore gratuito che caratterizza l’interpretazione di Origene, secondo cui Dio è amore, una dimensione presente nel Vangelo e non nell’antico Testamento, difficile non pensare, dunque, che Origene parta dal Vangelo di Giovani nella sua lettura del testo sacro e sia fortemente influenzato dalle correnti gnostiche che interpretavano il Nuovo testamento alla luce delle categorie della classicità, quello che era un esercizio necessario per difendere le proprie idee dagli attacchi dei pagani e insieme per spiegare cià che andava al di là del razionale. Il rapporto tra lo sposo e la sposa è, dunque, il «rapporto tra il logos-Cristo e la sofìa-sapienza, l’elemento femminile di Dio, l’anima si incarna per ritornare al padre ma ha bisogno di sposarsi con la sofìa che sola può ricondurla a Dio. "Sofìa" che però è già parte del logos, è già sapienza. Una concezione nella quale si intuisce una forte eredità platonica, secondo quella duplice concezione dell’amore, che vuole da un lato l’amore tiranno, irrazionale, che fa dipendere l’amato dall’oggetto desiderato e dall’altro l’amore filosofo, la sofìa appunto, che permette all’anima di arrivare a Dio». Dove finiscono, dunque, i confini tra esegesi cristiana e filosofia, fede e ragione, teologia e filosofia, si chiede Cacciari. Tocca, quindi, a Limone, sottolineare come Origene consegni un altro contributo importante alla riflessione, «è chiaro che nella sua interpretazione sofìa e logos non sono distinti ma sono due qualità del Cristo, così se la sofìa fa riferimento all’unione del figlio con il padre, il logos richiama la qualità del Cristo di mediatore tra il padre e l’umanità». E così la discussione mantiene sempre un livello altissimo, dal carattere drammatico del testo, evidente proprio nell’interpretazione di Origene, alla forza dell’esegesi cristiana.