No, non mi consegnerò alla retorica di circostanza. Tra me e Ciriaco De Mita, nel lungo tempo vissuto in ruoli diversi, c’è stato sempre rispetto. Non l’ho amato, ma gli ho voluto bene, anche quando le vicende ci hanno visto su fronti opposti. Ciò che non è mai mancata è la reciproca stima. Ciascuno è rimasto con la propria opinione che spesso ha causato lunghi silenzi. Con la sua scomparsa cala il sipario su una straordinaria epoca che ha visto consolidarsi la democrazia nel nostro Paese. Ripercorrendo la sua lunga vita politica si coglie il senso vero dei suoi ragionamenti aventi come fondamento il dialogo e il confronto. Ideatore, con Ruffilli, dei Patti costituzionali con l’allargamento del consenso oltre i confini della maggioranza, De Mita ha segnato tappe fondamentali per lo sviluppo dei rapporti politici tra i partiti. Se è vero che la morte cancella tutto, e l’auspicio è il riposare in pace, è altrettanto vero che la figura di De Mita si coniuga con almeno tre momenti del suo vissuto. Il primo: il fine ragionatore che sugli scalini del monumento di Nusco formava una coscienza politica con il suo padre spirituale don Passaro, attraverso la scelta antifascista e la formazione cattolica sturziana del popolarismo. In questa fase De Mita è attento al processo riformistico del Paese e allo sviluppo del clima democratico. C’è una seconda fase. E’ quella che nasce con “Cronache irpine” che vede De Mita leader di un gruppo di giovani che si formano su una politica dei contenuti e si candidano a diventare riferimento della classe dirigente del Paese. Il successo è nella solidarietà del gruppo di cui fanno parte Mancino, De Vito, Bianco, Agnes, Aurigemma, Savignano, Telaro e altri ragazzi volenterosi di far politica e di confrontarsi. Sarà in questa fase che l’Italia con le sue istituzioni diventa riferimento della buona politica nazionale. Un’altra fase si consuma con la vicenda del terremoto del 1980. E’ la prima vera scossa che investe il potere demitiano. S’intrecciano tradimenti politici ( il Caf di Rimini) e vicende personali con la ricostruzione delle aree terremotate. Il potere traballa, la solidarietà del gruppo dirigente si assottiglia. Andando avanti c’è la deflagrazione del valore che nel passato aveva reso forte la classe dirigente. Cade la Dc, De Mita, che ha retto il partito per ben otto anni, tentenna nel ricostruire il Centro politico e si lancia, forse suo malgrado, nell’avventura del Pd che considera poi una sciagura politica, giungendo alla riflessione della non esistenza di quell’ammucchiata. E qui ciascuno dei protagonisti della grande stagione democristiana va per proprio conto. Da De Vito a Zecchino, passando per Bianco, Mancino, Gargani, Mastella, si assiste a una quasi rivolta del gruppo che fu. C’è, poi, l’ultima fase, a mio avviso, che caratterizza l’impegno di De Mita. Quella che si lega al pensiero che manca e non alimenta la nascita di una nuova classe dirigente. E’ questo un tema che ci ha visto più volte in disaccordo. Se è vero, come è vero, che De Mita è stato leader indiscusso di un’intera classe dirigente, è però altrettanto fuori discussione che egli non è riuscito nell’intento di far crescere giovani promettenti che hanno finito per fuggire dalla politica. Il peccato veniale del familismo lo ha penalizzato non poco, consegnandogli amara ingratitudine. La sua scomparsa apre nuovi scenari in una provincia ormai orfana di classe dirigente, sempre più colonizzata e servile con i potenti di turno.
di Gianni Festa