C’è un virus che mina questo voto 

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Dal primo governo repubblicano di De Gasperi del ’46 a quello Andreotti del cosiddetto compromesso storico, per citarne solo alcuni tra i più critici, la “gestazione” di un governo non ha mai avuto vita facile. Tutt’altro.  Questo spiega anche la loro proverbiale caducità. Allora però c’èra, comunque, sempre una “formula precisa”, spesso controversa, su cui discutere e scontrarsi. Quale è il limite di oggi, il paradosso più intollerabile, è che, in vista del voto di marzo stiamo pensando soprattutto a come andare a “rivotare” con un’ altra legge elettorale. A ributtarci nelle consuete diatribe, in quella spirale perversa di pareri e contro pareri, che ha fatto tanto male alla credibilità delle istituzioni.

Con queste premesse, disfattiste, non v’è altro termine per definirle, è naturale che ogni conseguente discorso finisca per riflettere una diffusa sfiducia, camuffata da propositi nobili ma, in realtà, il “virus” più insidioso, che sta minando queste consultazioni. Nasce da qui l’odierno inconcludente spettacolo da “Hyde Park: una gara di frottole , una miscellanea di promesse, uno scenario di “urla e grida” assordanti da vanificare anche il beneficio di raccogliere qualche buon consiglio. Si dice che nessuno intenda scoprire le proprie carte, ma com’è possibile farlo, se non si crede prima di tutto nella stabilità del dopo voto?

La stessa ventilata ipotesi di un “monocolore pentastellato”, cioè un “menu fisso”, “turistico”, nel segno di chi ci sta, come si dice volgarmente, questo “passa il convento”, va in questa direzione . Non parliamo poi del “karaoke” delle “larghe intese”, evocato più per “sputtanare” i “promessi sposi” che per discutere seriamente sulla praticabilità di queste nozze. Con una caciara così, si aprono praterie per l’esercito degli astensionisti, già intorno ai 13 milioni.

A proposito di menu, per stare alla metafora, qui manca il fondamentale ingrediente della democrazia: la voglia di dialogo. Non ci si è neanche accorti che una traccia di governo possibile l’ha lanciata di recente addirittura il premier Gentiloni. Parlando al Forum internazionale di Davos, davanti al gotha della nomenclatura mondiale, non certo su “un predellino”, ha detto “Noi saremo il pilastro di una possibile coalizione; nel nostro Paese abbiamo una certa esperienza nell’uso della flessibilità in politica”.

Coalizione e flessibilità: due parole non casuali, in sintonia con una intervista, rilasciata, quasi in contemporanea, da Napolitano, l’ex capo dello Stato, il quale ha avvalorato indirettamente lo scenario di Gentiloni. Non sappiamo se, nel parlare, Gentiloni pensasse a un governo di decantazione, di scopo, compatibile con il suo profilo di “cauto navigatore”; di certo c’è che, in fatto di “flessibilità” i suoi titoli per fare bis a Palazzo Chigi battono ogni concorrenza.

Tra qualche mese cade il 40° anniversario del rapimento e della uccisione di Aldo Moro, di fronte all’odierno scenario di dissociazione politica, torna molto attuale, profetica, la sua preziosa lezione sulla indispensabilità del dialogo, a suo tempo respinta e recisa per abietta cecità. E’ necessario, diceva, “aprirsi a esperienze politiche alternative, pur nella distinzione delle rispettive storie, per gli interessi superiori del Paese” e aggiungeva: “sono gli eventi a comporre e a scomporre i governi”. Si capirà che questo è il momento di comporlo per una emergenza- Paese sempre in ballo?

di Aldo De Francesco edito dal Quotidiano del Sud