“Che mondo sarebbe senza montagne?”

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Di Diego Infante

Imprimere movimento, dispiegare una sinfonia di acuti, lacerare la banalità del piatto: è questo il compito delle terre alte. Ciò non significa accordare mera valenza estetica, né tantomeno cedere all’horror vacui: le montagne impongono di alzare lo sguardo al cielo, ampliare orizzonti, ospitare ulteriorità sconfinate.

La mente si apre, si quieta, nonostante pinnacoli e guglie turrite: il brivido della linea verticale trascolora poco a poco in una profonda pace interiore. È per questo che da sempre le montagne fungono da tramite col metafisico e col mistero della vita: fin dall’alba dei tempi gli uomini vi leggono trame divine, ne misurano la possenza, certificando la loro relatività e piccolezza.

Eppure ormai l’incanto è solo un vecchio ricordo, profanato da più terrene ambizioni, sintomo di una hybris titanica che attanaglia l’homo oeconomicus in una morsa di soffocante costrizione. Le scritture indù chiamano questo periodo «kali yuga», Roberto Calasso preferisce la locuzione di «innominabile attuale»: l’ardore della fascinazione dionisiaca, facilmente esperibile al cospetto dei giganti di pietra, è ormai ridotto a mestizia di un passato che non tornerà più.

E così il nostro sguardo precipita miseramente verso il basso, accecato dai nuovi idoli delle
tecnologie a “obsolescenza programmata”. Ma è a questo punto che le montagne assumono un ruolo capitale: quello di riportare in alto lo sguardo, sottrarlo alle distrazioni che disperdono l’attenzione in mille rivoli, facendoci perdere di vista l’unità che soggiace alla molteplicità.

Vette interiori, metaforiche: ecco il capovolgimento di fronte. A tentarne l’ascesa con impavido ardimento furono in tanti; tra questi il pensatore francese René Guénon, che ne saggiò l’incanto e la vertigine. Con l’acutezza dello sguardo e la sensibilità dell’ascolto, seppe scorgere i segni della decadenza: il marxismo, sentenziava, ci ha messo un tetto sopra la testa, mentre la psicoanalisi ha aperto una botola verso l’inconscio.

E il cielo, si domandava? Che fine ha fatto? È evidente, concludeva, che abbiamo dimenticato questa dimensione. Nonostante ciò, le terre alte sono ancora lì, giganteggiano immacolate nella loro possenza. Ci indicano una rotta, anzitutto: quella degli orizzonti sottili, dove l’aria è più pura, e i pensieri scorrono liberi.

Il “brivido acquietante” consente allora di rammemorare che la fisica è solo una minuscola parte del Tutto. Una totalità indifferenziata che non si cura di distinzioni, ma che vive dell’armonia degli opposti.

Ecco perché, anziché ergerci a giudici, faremmo bene ad ascoltare con umiltà un ritmo ancestrale e senza tempo, che tuttavia impone il vincolo dell’accettazione: solo così potremo tornare ad accogliere l’immensità imperscrutabile del cielo.