Conte come Capossela

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Un uomo della provincia italiana legato ad un piccolo mondo che sembra antico e che invece resta il più genuino in un’Italia malandata e frammentata. Paolo Conte ha compiuto qualche giorno fa 80 anni. Una personalità della nostra musica nato ad Asti, una città che dista oltre 800 chilometri dall’Irpinia. La sua melodia e soprattutto le sue parole sono la spazio di una immaginazione, di un’atmosfera, di luoghi, di persone che sono la chiave universale per raccontare la piccola vita quotidiana. Come tanti irpini, anche il piemontese Paolo Conte è un uomo schivo, una timidezza naturale che rovescia in passione per luoghi amati e conosciuti come Parigi o sognati come il “suo” Sudamerica. Un Avvocato specializzato in fallimenti che diventa un artista e che allunga il suo sguardo disincantato e curioso sulla musica ma soprattutto sul mondo. E c’è un’analogia tra Paolo Conte e il “nostro” Vinicio Capossela. Lo ha spiegato bene Alfio Sironi che la coglie non “per i modi dello scrivere o del suonare ma per l’ironia che li lega nella loro natura più intima. Paolo Conte costruì, al suo debutto nel 1970, un sipario di personaggi osservati con un sarcasmo spietato e raccontati con toni quasi crepuscolari. Stravolse l’uso della parola, sfidando la difficile e puntuta lingua italiana a diventare musicale, ad incastrarsi, non solo con le note, ma facendo del testo uno strumento tra gli strumenti. Certe parole, per chi ha ascoltato la musica dell’Avvocato, sono ancora oggi inscindibili da certe melodie, evocano momenti precisi, sono un tutt’uno con determinati brani del repertorio contiano. Allo stesso modo, e andando oltre il puro gusto della parola come strumento, anche Capossela si è servito dell’ironia e dell’ingenuità comica per elevare la propria poetica. Vinicio infatti, è uno dei migliori interpreti delle tradizioni introdotte in grandi quantità nei propri spartiti ma oltrepassandole attraverso l’uso ironico e giocoso della parola”. La musica di Paolo Conte ci ha fatto rivivere personaggi dello sport d’altri tempi come il grande calciatore Schiaffino capace di magie e il mitico ciclista Gino Bartali, descritto con un naso lungo come una salita e gli occhi allegri da italiano in gita. Espressioni che hanno accompagnato intere generazioni e che possono dire poco o suonare strane a chi oggi ha meno di trent’anni. E del resto è vero come diceva Guccini che ci sono due Italie. Una è quella che quando si dice l’Avvocato pensa a Gianni Agnelli. L’altra è quella che pensa a Paolo Conte. Io sto con la seconda. Ma Paolo Conte è un uomo del novecento che ha raccontato il nostro paese non solo nelle sue canzoni ma anche in quelle scritte per altri. Azzurro scritta da Conte e cantata da Adriano Celentano è del 1968. Un anno simbolo. Note che assomigliano ad una marcetta che stridono con la moda di quei tempi di lotta e cambiamento. Lo stesso Conte spiega che “quando uscì ci fu una levata di scudi perché andava controcorrente rispetto ai ritmi dell’epoca. sogghignarono in molti, ma io me ne infischiavo perché avevo applicato a quella canzone degli echi poetici che fanno parte della nostra sensibilità. Fui capito dal pubblico, Azzurro ebbe un grande successo. Tutte le mie canzoni nascono con questo spirito: scrivere una musica un po’ fuori moda, un po’ segreta, che vada a cercare in fondo a noi le risonanze della nostra identità”. Insomma la sua è una sorta di grazia che lo rende capace di fissare il momento e di accompagnare la storia del nostro paese. Le parole profumano ha detto qualche tempo fa. Lo stesso si potrebbe dire delle sue canzoni.
edito dal Quotidiano del Sud