Coronavirus: io scelgo di vivere

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Di Monia Gaita

Vivere ai tempi del coronavirus è un po’ come smontare dalla sella delle abitudini ordinarie e spingere da soli una due ruote a rischio di rottura. Proviamo a cercare nel frasario della razionalità le parole migliori, ma anche quelle risultano infette dal morbo del panico: “Posso uscire, ma devo mantenere la distanza di sicurezza pure dagli amici; se vado in pullman, dopo è necessario che mi lavi accuratamente le mani; le riunioni sono proibite, indìco un convegno con me stessa in cui faccio contemporaneamente da relatore unico e da spettatore solitario”.

Le raccomandazioni in TV e sui giornali sembrano propagarsi all’infinito, punteggiate da un allarme trasformato in psicosi.

Camminare per le strade è un inedito percorso che si snoda tra bar di diffidenza e uffici di sospetto.

C’è un dislivello eccessivo tra ciò che è giusto per evitare il contagio e i gesti fissati per legge nel quotidiano.

Francamente, io scelgo il dislivello.

Scelgo di vivere con qualche montagna di paura in più.

Scelgo di baciare le cose e le persone.

Continuo ad abbracciare i conoscenti, mi avvito distratta al traffico urbano con gli occhi rivolti agli altri, perché ho bisogno degli altri per essere ciò che sono.

Non sarei felice in un pianoro deserto, in una steppa sicura eretta per me sola.

Preferirei rotolare da qualche minuscola fessura nel sottosuolo letale del virus.

Rifiuto l’antidoto della solitudine, lo spiazzo perfettamente liscio e spopolato di questo essere comunità senza più esserlo.

E chiedo di essere perquisita: toglietemi pure il telefonino che non cospargo di amuchina quando rientro a casa, e requisitemi il cappotto che non innaffio di cloro o di vapore igienizzante.

E requisitemi pure i pensieri se volete. Avrete un tampone negativo.

La verità è che mi piace stare tra la gente, e poi se non lavoro nessuno mi paga. Il web working funziona anche qui, ma non del tutto.

Sarà che abito in una terra meravigliosa a corto di stipendi, l’Irpinia.

Sarà che qui l’agente patogeno più pericoloso è la mancanza di lavoro. Sarà che contro la disoccupazione da almeno 3 decenni non è mai stato approntato un vaccino.

Sarà che l’emigrazione qui è alta, e fuggire dai luoghi è una pratica consolidata che non produce più nemmeno un lieve tintinnìo.

In tanti partono in silenzio tentando di aggiustare le loro vite scalcagnate. In tanti hanno il cuore segnato da rughe così profonde che non sarà un virus in più o un virus in meno a decretarne la morte o la salvezza.

Sarà che dal blocchetto spesso informe e brusco dell’esistere, crediamo ancora che valga la pena lottare, che valga la pena attendere, che valga la pena sperare.

Che valga la pena tenere con calore la mano nella mano invece di questa campagna di isolamento che non può perdurare.

Che valga la pena frugare in tasca, gettare lo spavento in un pantano, riavviare l’economia della saggezza, i motori dell’equilibrio e della reazione.

Dobbiamo uscire dalla menzogna di concepire che il mondo rimanga prospero, incolume e bello se stacca la spina dal mondo.