Curarsi al tempo del Covid. L’esperienza di un paziente irpino

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Di Andrea Ricciardiello 

L’impatto che la pandemia ha avuto e sta avendo sul nostro sistema sanitario nazionale è stato ed è tuttora imponente, ripercuotendosi sulle attività di prenotazione ed erogazione delle prestazioni specialistiche ambulatoriali, di diagnostica strumentale oggetto di monitoraggio e soprattutto sulle operazioni chirurgiche degli interventi considerati non salvavita e sulla condizione dei pazienti in attesa di entrare in sala operatoria. In questa difficile situazione si è dovuto confrontare un cittadino altoirpino, quando ha avuto bisogno di sottoporsi, urgentemente, a un delicato intervento chirurgico. Curarsi al Sud, o facendo un viaggio della speranza al Nord? In certi casi, spiega, da noi In Alta Irpinia la scelta, a volte, avviene affidandosi al passaparola, a volte ai santi, o all’istinto. Andrea, invece, ha scelto di curarsi in quell’ospedale che, già, 15 anni prima, gli aveva curato il padre per lo stesso problema. Così dopo avere adempito i compiti burocratici, contattato l’ospedale, fatte le ultime visite ambulatoriali, gli ultimi  esami strumentali e clinici, nei vari centri pubblici e privati, non senza difficoltà, e con la paura dei contagi, veniva messo in lista d’attesa. A distanza di qualche giorno, il centralino dell’ospedale, lo informava di presentarsi presso la struttura ospedaliera il giorno 10 marzo per effettuare il tampone faringeo e, se il test sarebbe risultato negativo, il giorno seguente poteva ricoverarsi. E così il giorno 11 marzo alle ore 11.00 giunse sul posto accompagnato dalla moglie e dalla figlia. Dopo avere fatto la fila e passato i controlli all’ingresso principale, veniva accompagnato, prima in accettazione e, dopo avere svolto le ultime formalità burocratiche, al primo piano nella stanza 104. L’ampio stanzone, ben pulito e sistemato, era dotato di una tv, aria condizionata, bagno con doccia e 4 letti, di cui 3 erano occupati da tre pazienti.

Subito dopo avere preso possesso del suo letto, tolto gli abiti civili, indossato il pigiama e la vestaglia, entrarono in camera, prima  un infermiere per fargli il prelievo del sangue, poi un medico che visitò i pazienti e controllò le medicazioni, infine un altro infermiere, che lo invitava a seguirlo in una stanza dove l’attendeva un medico che, dopo avergli fatto firmare la cartella clinica, gli comunicava che la mattina seguente lo avrebbero operato.  Ritornato in camera, verso mezzogiorno una OS gli portava il pranzo costituito da un piatto di penne al sugo, per primo, dei medaglioni di pollo lesso impanato e una insalatina verde non condita per secondo, poi una mela e una mezza d’ acqua.  Andrea continuando il suo racconto dice che, per tutto il periodo, che venne ricoverato, il tempo l’occupava guardando la tv, conversando via SMS o WhatsApp  con la famiglia e gli amici, o  con i compagni di stanza, diventati ormai di casa, e una suora che li andava a confortare di tanto in tanto. In certi momenti pensava a casa, e gli veniva spontaneo pensare ai parenti, a sua moglie e a sua figlia, che lo avevano salutato appena poche ore prima davanti al cancello d’ingresso. Chissà, se le avrebbe più rivisto, pensò tra se e se. Nel frattempo, erano di poco passate le 19.00, quando gli fu portata la cena. Pastina in brodo, poi del prosciutto cotto accompagnato da insalata verde, un panino bianco e un’arancia. La mattina seguente, alle 6 in punto, alle prime luci dell’alba venivano svegliati da alcune ragazze che, così come facevano nel pomeriggio, garantivano la pulizia e alla sanificazione delle stanze di degenza, degli ambulatori e delle aree comuni. Il servizio prima di colazione invece veniva offerta verso le 8.00. Fette biscottate e marmellata con, a scelta, caffè, orzo o tè verde, ma non per chi come lui doveva operarsi. Subito dopo, fuori dalla camera, si sentiva un trambusto, erano le barelle che spinte dagli infermieri facevano la spola tra  le stanze dei malati e le sale operatorie. Portavano i pazienti ad operarsi. In contemporanea, si sentiva il suono della sirena “antiaerea” del sistema di chiamata infermiera che costringeva gli i infermieri a entrare e uscire dalle stanze dei pazienti, che cercavano assistenza. Sembrava di trovarsi sotto attacco aereo. Verso le 10.00,  entrarono due infermieri, che  lo invitarono a prepararsi; era arrivato il suo turno.

Arrivato in sala operatoria, trovò il chirurgo, che di li a poco lo avrebbe operato, il direttore sanitario del reparto, i vari anestesisti e gli infermieri, che cercavano di  rassicurarlo dicendogli di stare tranquillo  e che sarebbe andato tutto bene. Fatta la spinale; l’anestesia locale, si addormentò, svegliandosi dopo circa una mezz’oretta dai sussulti della barella che stava percorrendo la via a ritroso e dalla luce abbagliante dei neon. Arrivato in stanza fu spostato, delicatamente, di peso da due infermieri, dalla barella al letto. Dopo un po’, però, a causa dell’anestesia, non riuscendo ancora a muovere la parte inferiore della schiena e gli arti inferiori, fu preso da un attacco di panico. In quel  momento avrebbe pagato qualunque cosa per avere affianco la sua famiglia e capì cosa provassero i tanti pazienti colpiti dal virus, che a causa delle restrizioni, per giorni combattevano la malattia senza la presenza dei propri cari. Per fortuna l’assistenza della capo sala, che era venuta a controllare le sue condizioni, riuscì  a tranquillizzarlo.  L’effetto dell’anestesia cessò dopo un po’, giusto il tempo per la cena, erano all’incirca passate le 20.00. I 3 giorni di convalescenza li passò rimanendo fermo a letto, bevendo litri e litri d’acqua, e aspettando che il catetere vescicale e le sacche ripulissero la vescica dai residui dell’operazione. Dopo gli ultimi controlli, martedì mattina fu dimesso dall’ospedale. Ritornato a casa, disse che, dopo qualche giorno, riprese a vivere una vita normale, dopo tanti anni di sofferenza. Il chirurgo aveva fatto un vero miracolo. Di questa esperienza ricorderà sicuramente l’efficienza della macchina meravigliosa della struttura ospedaliera, la professionalità e l’umanità dei tanti medici, infermieri, gli operatori, i volontari, le suore, che impegnati tutti in prima linea a curare e salvare vite umane sapendo di rischiare la loro, non possiamo che definirli eroi senza gloria. Questo racconto, dice continuando, ha anche lo scopo di far capire che le eccellenze non si trovano solo al Nord dove tanti Meridionali per curarsi fanno i viaggi della speranza, ma anche al Sud. Infatti, l’Ospedale in esame, uguale a tanti presenti in Campania, è il Santa Maria della Pietà di Casoria in provincia di Napoli, dei religiosi Camilliani, dove il direttore Generale è il Fratel Carlo Mangione dei Salesiani, il responsabile della Divisione di Urologia, dove si effettuano una decina di interventi al giorno e migliaia ogni anno, è il dottor Sergio Bellini, il medico chirurgo che ha operato Andrea è il dottor Antonio Miragliuolo, il  responsabile delle dimissioni è il dottor Michele Lanna, la caposala la dottoressa Bellini di Avellino.

A tutti loro va il ringraziamento mio e quello dei tanti pazienti che negli anni sono stati, da loro, curati amorevolmente. L’ospedale ha reparti di Oncologia, Chirurgia generale e mini invasiva, Gastroenterologia, Oculistica, Urologia, e Pneumologia e altri servizi di Diagnostica e cura i tumori compresi quelli del colon retto, prostata, stomaco rene e retto. Ha una disponibilità di 120 posti letto, le sale operatorie esistenti sono state ristrutturate e riattrezzate di recente, inoltre è stata realizzata, da poco, una nuova, moderna e all’avanguardia sala operatoria per gli interventi di Day Surgery ed è considerato un centro di eccellenza e un riferimento per tanti cittadini del Sud e degli Italiani.