Davanti a Kabul

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Davanti a Kabul c’è la nostra coscienza. Non sfuggi, dovunque vai o riduci il discorso a chiacchiera, Kabul la trovi di fronte a te, è lo specchio della tua coscienza: da quel che dici e fai attraverso “l’uso pubblico della ragione”, dimostri se sei o non sei un essere umano che, con Terenzio, può dire “nihil humani a me alienum puto”. Gli Stati Uniti hanno concluso con un giorno d’anticipo sulla data fissata (31 agosto) la loro andata via dall’Afghanistan insieme ai loro alleati (noi italiani compresi con 53 soldati in meno, morti in quella terra martoriata da mezzo secolo di guerra, di distruzione e di sangue). Si è trattato di una fuga quasi a gambe levate, nella quale, giovedì scorso, hanno perso la vita 13 marines e circa 200 afghani, raggiunti da un attacco suicida di terroristi dell’Isis. In questo spettacolo miserando si è risolto un ventennio di occupazione dell’Afghanistan, cominciato dopo l’11 settembre delle Twin Towers, da parte della più grande potenza economico-militare del mondo sotto l’egida dell’Onu e con l’aiuto di diversi suoi alleati.. I fini dichiarati dell’invasione erano due: lotta al terrorismo di Bin Laden e pacificazione civilizzazione – democratizzazione dell’Afghanistan. Bib Laden non era nascosto in Afghanistan ma in Pakistan, dove è stato scoperto ed eliminato (2 maggio 2011); l’Afghansitan ora è mani dei talebani, il cui potere è conteso da sanguinari peggiori di loro, i seguaci dell’Isis. D’altronde, già dalla primavera di quest’anno le truppe talebane occupavano il 65 per cento del Paese. A dirla tutta, gli Usa avevano assunto con i talebani l’impegno per cui, in cambio, dell’aiuto contro l’Isis, avrebbero consegnato nelle loro mani il paese. Gli americani sapevano bene che il governo fantoccio e corrotto da loro imposto non contava niente, come anche l’esercito di 390 mila mercenari, che si è arreso ai talebani senza che sparassero un colpo entrando a Kabul. E così Trump ha firmato la resa e Biden le ha dato attuazione. Mentre una massa di mezzo milioni di disperati in fuga preme ai confini del Pakistan e della Turchia, Kabul è tutto l’Afghanistan, semi distrutti, sono in preda alla più mera miseria e alla fame. I talebani stanno instaurando una crudele dittatura oscurantista, di cui sono chiamate a pagare i più atroci prezzi le donne, ossia la maggioranza della popolazione. La schari’a (legge islamica) impone alle donne il burqua, un abito nero che copre anche gli occhi, tranne che per una fessura; non possono uscire di casa se non accompagnate, né avere un lavoro proprio; non possono diplomarsi o laurearsi. Pensate, un cane o un gatto sono illimitatamente più liberi di una donna afghana. E, quel che è peggio, non possono essere visitate da medici di sesso maschile, e di donne medico non ce ne sono o quasi. Cosa che equivale a una condanna a morte in caso di malattie gravi. Mai come oggi s’impone il dovere di essere all’altezza del messaggio di fraternità e di senso umano del cristianesimo e della cultura umanistica occidentale: non solo bisogna essere ospitali, ma aiutare chi, come Emergency del grande Gino Strada, è rimasto tra quegli altopiani lontani a soccorrere e curare, e sostenere le lotte delle donne afgane. Bisogna trovare tutte le forme possibili di aiuto per quel popolo martire. Se ci sentiamo tutti, uomini e donne afghane, sappiamo ogni volta che cosa fare.

di Luigi Anzalone