L’obiettivo del dieci per cento che Massimo D’Alema ha posto come traguardo di una ipotetica lista a sinistra del Pd di Matteo Renzi è un riflesso condizionato, come un tic nervoso della sinistra italiana, mai diventata forza stabile di governo perché sempre condizionata da una componente estremista, incapace di fare i conti con la modernità. In un sistema maggioritario, il 10% dei consensi è una quota destinata all’irrilevanza. Nella storia recente lo dimostrano l’esperienza di Mino Martinazzoli. Che alla guida del Partito popolare alle elezioni del 1994 raggiunse l’11% restando fuori da ogni combinazione di governo e innescando, senza volerlo, un processo che avrebbe portato alla crisi della cultura cattolico-democratica; fallimento ripetuto nel 2013 da Mario Monti fondatore di Scelta civica, divisa subito in mille rivoli dopo aver ottenuto fra l’8 e il 9% alle politiche con le quali si è aperta l’attuale legislatura. Ma anche quando vigeva il sistema proporzionale, pur gradito alle forze intermedie, il 10% non è mai riuscito a determinare l’affermazione stabile di un partito. Era la misura del Psi di Nenni, De Martino, Mancini e Craxi, e servì solo a consentire ai socialisti di entrare in governi di coalizione a guida democristiana, sempre in posizione subordinata. Anche quando, con Bettino Craxi, ne ebbero la guida, non riuscirono a impostare una politica modernamente riformatrice, e fu l’inizio della fine del garofano. Nella situazione attuale, con un Partito democratico in evidente crisi dopo la sconfitta referendaria ma pur sempre in grado di rappresentare un terzo dell’elettorato, nel10% di una lista di sinistra evocato da D’Alema c’è anche la tentazione di organizzare un’avanguardia capace di “dare la linea”, di orientare l’intero campo progressista; funzione sempre auspicata ma mai realizzata nella storia politica italiana, neppure quando il Pci di Berlinguer tallonava da vicino la Democrazia cristiana. Impresa ancor più difficile oggi, poiché sono tanti i leader o presunti tali che aspirano a porsi alla testa dell’avanguardia, sicuri, come diceva il generale de Gaulle, che l’intendenza si sarebbe messa docilmente al seguito. Accanto e prima di D’Alema, Pippo Civati e Alfredo D’Attorre sono già un pezzo avanti con le rispettive avanguardie, Vendola e i suoi successori di Sel rivendicano un diritto di primogenitura e c’è chi guarda a Pisapia; dentro il Pd scalpitano i vari Emiliano, Boccia e tutti i sostenitori di Pier Luigi Bersani, che vorrebbe addirittura ricostituire il nuovo Ulivo insieme a quelli che segarono il primo; Speranza insiste per farsi notare. In molti casi si tratta di dirigenti politici, pur prestigiosi, che hanno già avuto la loro occasione e l’hanno sprecata o sono stati sconfitti, chi dal centrodestra chi da Beppe Grillo. Ora, probabilmente, coalizzati o meno fra di loro, potrebbero raggiungere e forse anche superare il 10%, che però, nel sistema proporzionale verso il quale ci stiamo dirigendo, servirebbe solo ad indebolire la componente progressista dello schieramento parlamentare uscito dalle elezioni. Con quale risultato? Già nelle ultime elezioni regionali e comunali (in particolare in Liguria e a Torino) le liste di estrema sinistra che una volta venivano definite “di disturbo”, hanno disturbato solo i candidati progressisti e favorito rispettivamente la destra e i Cinque Stelle; che lo schema si ripeta anche a livello nazionale, con una lista del 10% (o anche più) a sinistra del Pd, è altamente probabile. E dunque, lo spauracchio del 10% servirebbe, anche in questa occasione, solo a liberarsi di un segretario (Matteo Renzi), non certo a vincere le elezioni. Anche in questo caso, l’avanguardia perderebbe il contatto con il resto dell’armata.
edito dal Quotidiano del Sud