Due declini paralleli 

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Il declino politico lento e controllato di Angela Merkel in Germania non è minimamente paragonabile a quello brusco e rovinoso di Matteo Renzi in Italia; eppure le biografie dei due leader possono essere anche viste in parallelo, perché i tratti che le accomunano non sono pochi. Certo, la Cancelliera ha governato il suo paese per ben 18 anni e si è via via conquistata un ruolo di guida in Europa …diventando quasi la rappresentante ufficiale della Ue nei consessi internazionali, a prescindere da chi ne rivestisse la massima carica istituzionale. Renzi, anche se avesse avuto una simile ambizione, non ha avuto il tempo di coltivarla: cinque anni sul proscenio domestico fra guida del Pd e del governo sono troppo pochi per imporsi all’attenzione di un pubblico più vasto e smaliziato. Eppure fanno riflettere da una parte la coincidenza temporale del punto di caduta delle due leadership; dall’altra quello che appare al momento il diverso destino dei rispettivi partiti di riferimento, dei quali l’uno – l’Unione cristiano democratica –sembra comunque destinato a mantenere un ruolo centrale nella vita pubblica tedesca ed europea, mentre l’altro – il Pd – orfano di Renzi, è completamente allo sbando e rischia il disfacimento. Eppure, entrambi i partiti sono stati per anni il cardine di due sistemi politico-istituzionali in cui le analogie superavano le differenze, incentrati com’erano sull’alternanza, e a volte la collaborazione, tra blocchi conservatori e riformisti. Nei quasi vent’anni, tanto è durata la parabola di Angela Merkel, e negli undici dalla fondazione del Pd, ma si potrebbe andare indietro fino agli anni dell’Ulivo di Prodi (1995), l’alternanza ha funzionato quando le elezioni hanno prodotto un risultato netto con la vittoria dell’uno o dell’altro competitore; in caso di pareggio o (in Italia) di grave emergenza economica, l’alternanza ha dato luogo a forme di collaborazione, e sono nati i governi di grande coalizione a Berlino e il governo Monti a Roma. Ma le analogie si fermano qui, perché ben diversa è stata poi la reazione alle sconfitte che hanno segnato l’inizio della fase discendente delle due leadership. Angela Merkel, battuta in due elezioni regionali nell’ottobre di quest’anno, ha annunciato subito la rinuncia alla guida della Cdu e il ritiro dalla politica nel 2021, a conclusione del suo quinto mandato alla Cancelleria. Con questa tempestiva decisione ha innescato un processo di rinnovamento nella Dc tedesca che sta portando in queste ore al rinnovo della classe dirigente senza che venga intaccata la consistenza organizzativa del partito, che resta di maggioranza relativa. Ben diverso il caso italiano, dove la duplice sconfitta (referendum del 4 dicembre 2016, politiche del 4 marzo 2018), ha precipitato il Partito democratico in una crisi di cui non si vede l’uscita. Si accusa Matteo Renzi, dimissionario prima dal governo poi dalla segreteria, di muovere ancora le fila del Nazareno, ma in realtà ciò che è emerso chiaramente in questi due anni è che il Pd, privo di un leader scelto per due volte con le primarie, non riesce a trovare né una guida, né un programma, né un orizzonte nel quale collocarsi. Renzi avrà, ed ha, tutti i difetti che gli vengono attribuiti, ma negli ultimi nove mesi è stato l’unico che in Parlamento e fuori ha fatto risuonare la voce dell’opposizione, mentre sostanzialmente i candidati alla successione si dividevano accanitamente sull’opportunità o meno di allearsi con i Cinque Stelle, un movimento che non ha mai fatto mistero di voler cannibalizzare ciò che resta di una prospettiva riformista in Italia. Nel Pd, Renzi è stato considerato sempre un corpo estraneo da quelle componenti di matrice comunista o postdemocristiana che a un certo punto hanno pensato di poter sopravvivere liberandosi di lui, e invece sono destinate all’irrilevanza. D’al – tra parte, le elezioni di marzo hanno mostrato anche l’assoluta inconsistenza di un’alternativa di sinistra al riformismo che era prima dell’Ulivo e poi renziano, Che in queste condizioni, con o senza Renzi, il Pd posa risollevare le proprie sorti in un congresso che, inspiegabilmente, si svolgerà fra tre mesi, appare illusorio. Più che un segretario si rischia di eleggere un commissario liquidatore.

di Guido Bossa edito dal Quotidiano del Sud