La rovinosa caduta di Boris Johnson che si è dimesso da leader dei conservatori britannici e ora tenta disperatamente di restare alla guida di un governo comunque screditato, può indurre qualche riflessione sulla prossima conclusione di un ciclo politico che all’insegna del populismo più sguaiato e chiassoso ha dominato per anni la scena sulle due sponde dell’Atlantico cambiando radicalmente il volto dei tradizionali partiti della destra moderata. Ora, entrambi i campioni di questa tendenza che sembrava destinata a durare nel tempo, sono alle corde: Donald Trump è chiamato a rispondere davanti al Congresso statunitense addirittura del tentativo di sovvertire l’ordine democratico e di tradire il responso elettorale che lo aveva disarcionato; a Londra BoJo sta pagando il conto della sua arroganza e della disinvoltura con la quale ha trattato i propri affari privati e quelli pubblici, del governo e del parlamento. In prospettiva (e si parla di pochi mesi) un altro leader populista che ha fatto molto parlare di sé, il brasiliano Jair Bolsonaro, potrebbe esser chiamato ad una difficile (per lui) resa dei conti: si vota in ottobre e i sondaggi danno per vincitore il candidato della sinistra Lula. Sarebbe fin troppo facile a questo punto, azzardare un paragone con la situazione italiana, che vede per motivi diversi in difficoltà i due partiti – Lega e Cinque Stelle – che hanno giocato ruoli da protagonista per buona parte della legislatura alimentando in chiave nazionale pulsioni demagogiche che hanno assicurato loro vasti quanto effimeri consensi. In realtà, nonostante le apparenze, le analogie sono poche: sia negli Usa che nel Regno Unito i due partiti conservatori hanno solide radici storiche nello Stato e nella società; e dunque la parabola discendente dei leader pro tempore non comprometterà la loro presenza nel panorama politico-parlamentare. In Italia la situazione è diversa e più articolata. Da noi il declino del populismo di governo è stato determinato dal fallimento delle politiche demagogiche condotte dai due partiti alleati nella prima parte della legislatura, dalla disinvoltura di cui ha dato prova Giuseppe Conte alleandosi prima con la destra, poi con la sinistra, e infine dall’ingresso sulla scena di Mario Draghi, incaricato dal Presidente della Repubblica di formare un governo al di fuori delle tradizionali formule e alleanze, anzi con il compito di rimediare ai danni che la politica aveva prodotto. Era prevedibile che il successo di Draghi avrebbe messo in crisi i partiti in qualche modo “commissariati” dall’esecutivo; e così è stato. A risentirne sono stati un po’ tutti, anche il Pd che rischia di qualificarsi sempre più come il “partito del Presidente” (ma di un Presidente “estraneo”). A fare le spese della nuova situazione sono però soprattutto le due compagini populiste, oggi egualmente a disagio nel governo. In questi giorni l’attenzione è rivolta soprattutto verso i Cinque Stelle o quel che ne resta dopo la scissione promossa dal ministro Di Maio: è forte la tentazione di abbandonare il governo sperando di riconquistare consensi ritornando alle origini giacobine del Movimento; ma anche la Lega di Salvini è attraversata da analoghe pulsioni, superata nelle intenzioni di voto da Fratelli d’Italia e troppo debole per lasciare un’impronta nelle politiche governative. Ci si chiede a questo punto chi per primo, Salvini o Conte, si riprenderà la sua libertà; ma mentre per i grillini sarà difficile tornare ad interpretare il ruolo di alternativa al sistema che li portò inizialmente al successo, per i leghisti un recupero della tradizionale territorialità, magari con una guida diversa dall’attuale, potrebbe assicurare una dignitosa sopravvivenza.
di Guido Bossa