“Fuggire o resistere”

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Con la saggezza di chi ha combattuto tante battaglie e con le ferite di chi sa che le battaglie vanno combattute comunque, se si è dalla parte della ragione, riprendo la penna per rispondere ad un dibattito antico, che mi viene sollecitato dal Direttore Gianni Festa, e che è sorto, da ultimo, a margine dell’importante convegno di presentazione del “Dizionario biografico irpino” (Il Terebinto) curato dal professore Francesco Barra, e a cui hanno preso parte, il 19 dicembre scorso, lo stesso Gianni Festa, Sebastiano Martelli e Mario Gabriele Giordano.

l dibattito, che si è venuto accentuando soprattutto dopo quella sera di novembre del 1980, ha visto gli intellettuali e l’opinione pubblica dividersi tra chi ha sostenuto l’impossibilità di restare, anzi l’inutilità di restare in una terra definitivamente condannata, e chi ha creduto vitale resistere, resistere, resistere, quale dovere morale ed espressione di un progetto politico, che rasenta l’utopia. Il “maestro” di questa seconda schiera di intellettuali, tra cui inserisco quasi d’ufficio lo stesso Gianni Festa, Francesco Barra, Mario Gabriele Giordano, e tanti altri tra cui i miei compagni d’avventura Peppino Iuliano, Salvatore Salvatore o Alfonso Faia, è sicuramente Guido Dorso, che preferì vivere da “esiliato in patria” piuttosto che abbandonare una città opaca e arresa al fascismo.

Tra i protagonisti della prima schiera inserirei Antonio La Penna, che con grande dolore e sofferenza ha ammesso che la realizzazione di un proprio percorso personale, spesso costellato di successi professionali e intellettuali, dovesse prevedere il distacco dalla piccola patria, la partenza per un avvenire lontano dalla “palude” quotidiana irpina. Non so quale sia la scelta più difficile, quale la scelta più coraggiosa. Dipende dall’indole, dal carattere, dalle ambizioni, dai legami che ognuno di noi ha costruito. Personalmente, credo che non avrei potuto vivere altrove, per la “colpa originaria” dell’impegno civile, che risale all’esempio di mio padre, il mio primo maestro sin dai giorni in cui ho acquisito quel po’ di “ben dell’intelletto”, che mi accompagna. La sconfitta può anche arrivare, ma nella consapevolezza di aver militato dalla parte giusta. In tal senso, un esempio ci viene da quella linea De Sanctis – Gramsci, che aveva posto il ruolo dell’intellettuale al servizio di un progetto ambizioso di rigenerazione intellettuale ed etica della società nazionale.

L’intellettuale irpino, il giovane laureato oggi, che compie questa scelta, sa che la via percorsa sarà difficile e lastricata di amarezze. Sa anche che la lotta individuale porterà ad una sicura sconfitta. Solo l’unione, la condivisione, la comunanza di idee con altri intellettuali complici in questa Utopia potrebbero consentire il raggiungimento di un risultato diverso dalla sconfitta. Si tratta, ancora una volta, di superare il “fatalismo della solitudine”, di cui parlava Guido Dorso nell’“ Appello ai meridionali”, di organizzarsi e non essere soli, di discutere e lottare insieme. Soltanto così ha senso restare. Se si lotta o progetta o lavora da soli, il “fatalismo” porterà all’immobilismo e alla sconfitta. La scelta di restare non deve maturare, comunque, nell’attesa di riconoscimenti o di stime incondizionate. Molto spesso miete successo l’irpino transfuga, che, ottenuti allori fuori, viene celebrato come colui che ha tenuto alto il nome della piccola patria nel mondo. Lo stanziale, che lotta sulle barricate contro veri o presunti muli al vento, potrebbe correre il rischio di essere, agli occhi dei “sani”, un don Chisciotte o, il che è quasi peggio, il suo buon Sancho Panza.

di Paolo Saggese edito dal Quotidiano del Sud