Corriere dell'Irpinia

Giovani e povertà: quante bugie 

L’ennesimo impietoso report sulla condizione dei giovani senza lavoro in Italia e nel Mezzogiorno, quasi sette su dieci che tra i 18 e i 34 anni vivono ancora della paghetta di genitori e nonni… meriterebbe una collocazione di rilievo, che non si intravede, nella sincopata e prevedibilmente brutta campagna elettorale che da queste ore entra nel vivo. In attesa di verificare l’impatto delle misure comprese nel pacchetto “Resto al Sud”, le politiche dei governi sul lavoro sembrano non aver aiutato più di tanto la riemersione appena significativa di risorse potenzialmente preziose che restano invece sommerse. Il profilo della nuova occupazione creata, un milione di posti la cui metà è a tempo determinato, è di scarsa o comunque insufficiente qualità, come ammette lo stesso governo se annuncia l’impegno a mettere in sicurezza quei contratti, a partire da quelli a termine, e a convertirli gradualmente in buona occupazione, difendendo però il punto di partenza: era importante dare comunque un segnale che rompesse la stagnazione del mercato del lavoro. Una intenzione a cui sembra dar ragione l’analisi di Coldiretti, secondo la quale almeno la metà del 56% di giovani senza lavoro sarebbe pronta ad accettare il posto di operatore ecologico pur di affrancarsi dall’inedia sociale nella quale si trova confinata. Comunque la si voglia pensare, va detto e riconosciuto che gli interventi per creare occupazione non sono stati fatti in deficit, finendo cioè per gravare sul già insostenibile debito pubblico. Non possiamo dire se quella del Jobs Act è la strada giusta da allargare e su cui continuare. Possiamo però sapere quali sono le strade da non prendere: tutte quelle che portano a politiche da finanziare con il deficit. Non si tratta di consegnarsi ineluttabilmente o peggio scioccamente ai paletti posti dall’Unione Europea che en passant, giova ricordarlo, sono stati concordati ed accettati. Più semplicemente, le politiche finanziate dal deficit sono insostenibili per le nostre attuali risorse, durerebbero lo spazio di qualche mese, esporrebbero il Paese alle tempeste speculative, farebbe schizzare in alto i tassi di interesse a partire da quelli sui mutui a tassi variabili che toccano da vicino milioni di redditi medi. Torneremmo cioè a rivedere le ombre della bancarotta a cui siamo andati molto vicini nel 2012-2013 e si materializzerebbe il commissariamento da parte della Trojka. Resta il problema: come aggredire le disuguaglianze sociali che permangono e si sono allargate in questi anni e come tirar fuori i giovani dallo sprofondo della disoccupazione soprattutto al Sud? Dare risposte dovrebbe essere un impellente dovere della politica e di chi si candida a governare il Paese, a condizione però di non barare. Tra sconti fiscali, aiuti ai disoccupati, abbassamento dell’età per accedere alla pensione, aumenti degli assegni previdenziali minimi a mille euro, che sono i principali filoni sui quali è partita la caccia al consenso elettorale, la spesa stimata per difetto già supera i 130 miliardi, ai quali se ne aggiungerebbero altri 140 se si cancella la legge Fornero: nessuno dice con quali certe risorse, se non quelle aleatorie dell’aliquota fiscale unica per tutti, e con quali priorità. Le sparano così grosse nella consapevolezza che lo scenario del dopo voto potrebbe non consegnare vincitori certi. Nel pantano soprattutto le promesse più accattivanti affogheranno e torneranno buone per la prossima campagna elettorale. A cominciare dal reddito di cittadinanza, versione M5S, o reddito di dignità, versione Forza Italia, con un costo che va dai 15 ai 17 miliardi. Comunque lo si voglia chiamare, il Fmi da tempo esprime un giudizio spietato: costoso, poco efficace, non sostenibile specie in Paesi, come l’Italia, che non hanno capacità di manovra di bilancio a causa dell’elevatissimo debito pubblico. Il reddito di cittadinanza, dimostra il Fiscal Monitor del Fmi prendendo a riferimento altri 8 Paesi europei, funziona in Paesi emergenti dove il welfare è poco efficace mentre in quelli cosiddetti ricchi funzionano meglio politiche progressive tese a calmierare le diseguaglianze. Per stare alla campagna elettorale, stupisce che il candidato premier Luigi Di Maio annunci che il ministro dell’Economia del suo governo verrà proprio dal Fmi guidato da Christine Lagarde! Passata la sbornia, dovremo tutti tornare con i piedi per terra. In aprile, chi sarà a Palazzo Chigi dovrà mettere mano ad una correzione di bilancio pari a 4-5 miliardi e subito dopo appostarne altri 10 destinati alla prossima legge di Stabilità: risorse vere e certe che andranno ricavate da tagli alla spesa pubblica, dagli sprechi, dall’efficientamento dei principali servizi, partendo da sanità e trasporti. Sia pure dentro questo angusto spazio di manovra ci sono margini per interventi di contrasto alle povertà e alla disoccupazione giovanile. Sapendo però che la realtà è questa e la si potrà cambiare gradualmente soltanto con riforme tanto coraggiose quanto realistiche.

di Norberto Vitale edito dal Quotidiano del Sud

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