Giustizia e dintorni, il cavillo che vale un Ordinamento

a cura dell'avvocato Gerardo Di Martino

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Assolto per un cavillo. Titolavano così diverse testate giornalistiche dopo la sentenza con la quale si è concluso a Milano il processo Ruby ter che ha visto imputato, tra gli altri, Silvio Berlusconi. Il diritto di tacere, e dunque di difesa, derubricato a cavillo. Perché di questo si tratta. Se una persona, quando viene ascoltata dall’Autorità Giudiziaria, è già attinta da indizi o elementi che la collegano e la legano al fatto per il quale si sta procedendo, le deve essere assicurato il diritto al silenzio, oltre che un difensore. Principio, anzi regola di carattere universale, sulla quale si misura il grado di civiltà di un Paese. Si tratta di uno dei capisaldi non solo della nostra Costituzione per quanto della Convenzione europea delle libertà fondamentali dell’Uomo. Un diritto che ogni persona ha dalla nascita e che lo Stato non conferisce ma riconosce. Per questo la sua violazione comporta la sanzione massima della assoluta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese e, sempre per questo, si perviene all’assoluzione di chi è stato giudicato sulla scorta della inosservanza del divieto. Epperò non ci si può fermare al dato puramente tecnico perché questa vicenda ha un retrogusto amaro, rappresentando emblematicamente la situazione in cui ci ritroviamo a vivere, dove le regole fondanti il sistema vengono comunemente scolorite a tal punto da farle diventare roba per azzeccagarbugli. Una barbarie, laddove si pensi che proprio su quel cavillo sono stati istituiti e sviluppati tutti gli Ordinamenti democratici e liberali del mondo.