Giustizia e dintorni: una telefonata salva la vita

a cura di Gerardo Di Martino

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Tra gli spot pubblicitari più longevi, quello della SIP suonava così: “Una telefonata allunga la vita”. Con il condannato alla fucilazione che utilizzava l’ultima telefonata per rimanere in vita, ancora oggi ha il suo fascino.

A tal punto che è stato ripreso dall’iniziativa tirata su, di concerto, dalle Associazioni che hanno a cuore la vita, quella più nell’ombra, quella dove non hai tanto da scegliere, quella da carcerato. “Una telefonata salva la vita”.

 Si perché, trascorso l’anno orribile del record dei suicidi in prigione (ben 84), incombe sull’intera Comunità il dovere di, quantomeno, tentare di porre un argine alla piaga.

 Ha scritto un detenuto: “Poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare, da una telefonata al giorno, ad una a settimana, di dieci minuti, significa riperdersi”.

 Come dargli torto? Come dirgli che non è vero? È disumano limitare i contatti con la famiglia ed è degradante impedirli, anzi tagliarli, come si vorrebbe fare.

I detenuti sono affidati allo Stato, dunque a noi. E la nostra legge stabilisce che il loro trattamento è svolto “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. Non a caso, per rendere più tollerabile la vita in quello “di dentro”, vanno aumentate le connessioni con “il mondo di fuori”.

 Se pensate che con i telefonini sequestrati in carcere, ad essere contattati, sono stati figli, mogli o mariti, e che nella gran parte degli Stati “evoluti” ogni detenuto ha la possibilità di fare una chiamata ad una persona che vuole bene, almeno una volta al dì, in qualsiasi momento, beh, vi renderete conto che i rimedi alla vergogna dei suicidi in carcere non sono poi così lontani.