Gli scenari del dopo voto

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A due settimane dall’apertura dei seggi per le amministrative, gli ultimi sondaggi pubblicati dai giornali (poi se ne potranno fare ancora ma non verranno resi noti) ci dicono solo che le partite più importanti si giocheranno al secondo turno, il 19 giugno, e per l’elezione dei sindaci di Roma, Milano, Napoli, Bologna e Torino sarà determinante l’orientamento dei candidati sconfitti e il voto di chi dovrà assegnare la sua preferenza verso quella che si definisce abitualmente una “seconda scelta”. Naturalmente è anche possibile – e in qualche misura certamente accadrà – che molti elettori delusi si rifugino nell’astensione; ragion per cui è prudente non azzardare previsioni sul risultato finale delle principali città e limitarsi, ma non è poco, a riflettere sulla situazione politica generale che la conclusione della campagna elettorale fotografa. L’impressione è di una certa instabilità, che riguarda in misura diversa le principali forze in campo, quasi alla ricerca – tutte – di un terreno consistente sul quale consolidare la loro presenza in vista delle più impegnative battaglie future: referendum istituzionale e politiche. Se cominciamo dal Partito democratico e dallo schieramento di centrosinistra, colpisce la marcata divaricazione fra un profilo riformista e largamente unitario come quello che si presenta a Milano, con buone probabilità di vittoria, e l’insidia rappresentata a Roma da Sinistra italiana che ha visto la confluenza di Sel con transfughi del Pd e del Movimento 5 Stelle. Ora, mentre la candidatura di Sala a Milano conferma una tradizione consolidata a prescindere da chi se ne è via via fatto interprete (non dimentichiamo che il sindaco uscente proveniva dalla sinistra radicale), la situazione romana è del tutto diversa. Qui infatti il candidato sindaco Stefano Fassina contesta il Pd e il suo segretario addirittura minacciando di far confluire al ballottaggio i suoi voti sulla candidata Cinque Stelle. Se si tiene conto che nella regione Lazio Pd e Sel convivono con reciproca soddisfazione, si capirà che, a elezioni concluse, il partito di Renzi dovrà scegliere fra il modello milanese e quello romano; e mentre è chiaro dove vada la preferenza del leader, bisognerà vedere se gli elettori, non solo quelli romani, gli consentiranno di proseguire sulla strada prescelta. Con tutto ciò, è innegabile che Roberto Giachetti, candidato sindaco del Pd nella capitale, è riuscito in pochi mesi a risollevare il partito dalla situazione drammatica in cui era precipitato con la crisi della giunta Marino: un recupero quasi miracoloso che però potrebbe subire una battuta d’arresto se Giachetti non andasse al ballottaggio. Se invece fosse lui a vincere lo scontro finale, per Matteo Renzi e il suo progetto politico sarebbe un trionfo. Per il momento si può dire che il Pd è tornato competitivo e che quindi il tentativo di organizzare un campo progressista moderno compie passi in avanti; ma nel complesso la fotografia delinea uno schieramento ancora incerto. Le intenzioni di Renzi sono chiare: dal risultato delle elezioni si attende una conferma. Anche per il centrodestra i test di Milano e di Roma saranno determinanti. Qui, oltre alla sorte dei candidati sindaci, è in ballo la leadership della coalizione, in un anomalo incrocio di posizioni: nella sua roccaforte milanese Salvini appoggia un candidato che più berlusconiano non si potrebbe; mentre a Roma è riuscito ad imporre Giorgia Meloni, erede del centralismo missino, con l’esplicita intenzione di far fuori il candidato di Forza Italia. Anche in questo caso, dal risultato del duplice duello potrà dipendere la guida dell’alleanza e il suo stesso futuro. Infine i Cinque Stelle, che cavalcano ancora con successo l’onda dell’antipolitica, ma cominciano a fare i conti con la dura realtà dell’amministrazione quotidiana, del reclutamento dei candidati, dei programmi, della presenza sui territori. Nella campagna elettorale che sta per chiudersi si è visto che anche il movimento grillino è lambito dalla questione morale, mentre assolutamente non può (e non vuole) garantire l’autonomia dei suoi dirigenti e dei suoi candidati dalla imperscrutabile volontà del fondatore. Come può un movimento che rifiuta di adottare regole trasparenti di democrazia interna proporsi come paradigma per la definizione di un sistema democratico che ha indubbiamente bisogno di essere rifondato? E’ un problema che si porrà esplicitamente quando si voterà per il referendum costituzionale, ma che gli elettori, soprattutto quelli romani sui quali Grillo ha puntato tutte le sue carte, avranno presente già il 5 giugno.
edito dal Quotidiano del Sud