Guerra e autogol informativo

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Più passano i giorni e meno appare comprensibile la decisione della Rai di sospendere i servizi giornalistici dei corrispondenti e degli inviati dalla Federazione russa. La motivazione addotta dall’azienda del servizio pubblico è imbarazzante e contraddittoria: si parlava, nel comunicato del 5 marzo che annunciava l’oscuramento, della necessità di “tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese”, e si faceva implicito riferimento all’approvazione da parte del parlamento russo di una legge che prevede pene severe per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità. Ancora l’altro giorno l’amministratore delegato Fuortes ha rivendicato l’opportunità della decisione – contestata da due consiglieri fra i quali il rappresentante del personale – citando un parere dell’ufficio legale: ma se al tentativo di condizionare la libera stampa si risponde con l’autocensura, si fa solo, consapevolmente o meno, il gioco del dittatore di turno. Quanto poi alla sicurezza dei giornalisti, si converrà che questa è in pericolo molto più concretamente nel caso delle inviate e degli inviati “sul campo”, che stanno svolgendo egregiamente un prezioso lavoro, esponendosi a rischi incalcolabili. Un comunicato del sindacato dei giornalisti Rai parla esplicitamente di “bavaglio imposto su improprie pressioni arrivate dai partiti a danno di uno storico e prestigioso presidio giornalistico”. Prima o poi la questione approderà in Commissione di vigilanza, e si capirà se la denuncia di interferenze politiche è fondata. Se così fosse, andrebbe respinta con energia, ma intanto la Rai non ci fa una bella figura: i grandi giornali italiani che avevano corrispondenti a Mosca li hanno mantenuti e nessuno è stato sanzionato, i broadcaster internazionali che in un primo momento avevano interrotto le trasmissioni dalla Russia sono tornati, molti giornalisti russi stanno dando prova di grande coraggio e capacità professionale sfidando la censura governativa e rischiando, loro sì, la libertà: il caso di Marina Ovsyannikova, che ha interrotto il principale telegiornale nazionale esibendo in studio un cartello di denuncia contro la guerra ha fatto il giro del mondo, ed è lecito sperare che proprio l’enorme risonanza che il suo gesto ha provocato serva a proteggerla da ulteriori minacce o sanzioni. Anche di fronte al comportamento esemplare di tanti come lei, si può ritenere che oscurando le fonti russe si fa involontariamente un favore a Putin e al suo regime, che certamente non vuole offrire un megafono europeo al dissenso che cresce soprattutto nelle grandi città della Federazione russa. Per quel che si può capire, l’azzardo tentato da Putin con l’invasione dell’Ucraina, se sta provocando una reazione di tipo nazionalistico-identitario, sta anche alimentando un moto difficilmente misurabile ma reale di protesta e di rifiuto della guerra, che insidia il consenso pilotato dall’alto e che meriterebbe di essere raccontato e valorizzato al massimo, perché è da queste forme di dissenso che può partire il riscatto dell’intera società. Decisioni come quella assunta in questa circostanza dalla Rai non hanno precedenti in altri conflitti che hanno insanguinato il pianeta in anni recenti, e il ripensamento della BBC e di altre emittenti internazionali dovrebbe servire da esempio. A meno che il ritiro dei corrispondenti da Mosca sia da intendere come una sanzione che si aggiunge alle altre comminate dall’Europa e dagli Usa, solo che questa danneggia certamente chi la impone e favorisce chi la subisce. Un autogol.

di Guido Bossa