Corriere dell'Irpinia

I paesi non sono centauri, l’universo poetico di Peppino Iuliano racconta il tempo della solitudine

di Gerardo Iuliano

Lo so che sembra un bisticcio, l’Autore è lui. Io sono solo l’articolista. Peppino è mio cugino e, in fondo, ha sempre scritto del paese e nel paese.

Con la poesia, cominciò a metà degli anni settanta: stava in casa con Tonino suo fratello, così almeno mi raccontò; su una rivista c’era il bando di un concorso di poesia; si dissero: vogliamo provare? Si mise a scrivere; Tonino ci metteva il becco pure lui. Il titolo era: Malinconia di terra. E vinse il premio.

In seguito, alla sua crescente produzione di articoli giornalistici e saggi, per lo più di stampo meridionalista, si aggiunsero i titoli delle raccolte poetiche, in cui sono diversi i titoli, e i brani, che evocano la terra e il paese: Malinconia di terra (1976), Il sud non è forse… (1980), Per non morire (1981), Oltre la speranza (1981), La civiltà contadina in Irpinia (1982, saggio), Una misura di sale (1983), Semi diversi (1985), Cartolina precetto (romanzo, 1986), Umangraffiti (1988), Celie giambi elzeviri (1990), Antinomie e maschere (1994), Digressioni di un aedo (1999), Parole per voce sola (2002), Voli e nuvoli (2004), Solo per amore (2007), Verso la cruna (2008); Rosso a sera (2010), Vento di fronda, (2012), Fiori di carta (2014), Sciami e formiche (2017), A passo d’uomo (2018), Parva materia (2018), Tantilla (2019), Via Crucis (2019), Parole d’amore (2020), La mia cantorìa (a solo barocco) (2021), Vuoti di memoria (2022). Versi d’asporto (2023), fino a quello di cui si parla.

E scrive ancora. Ma si incavola quando lo chiamano poeta.

Un paese ci vuole, o se non altro un quartiere, una strada, se proprio sei nato in città.

In fondo il rapporto col paese può essere letto come quello con la madre: dall’iniziale dipendenza del bambino dalle cure materne, allo svezzamento, orale (e anale), alla progressiva autonomia, l’oggetto materno viene introiettato e diventa fattore di crescita dell’individuo, dal seno all’oggetto transizionale (la “coperta di Linus”), fino a tutto quello che intendiamo come “cultura”, ambiente costruito, usi e costumi dell’individuo. E come, nella relazione con la madre, un rapporto difficile rende più laborioso il distacco, un rapporto sofferto con le proprie radici produce in genere più letteratura di uno soddisfatto.

In questo quadro di riferimento, tra gli scrittori trovi diverse posizioni, a seconda di chi in paese, o nel quartiere, ci è rimasto, o è emigrato.

C’è tutta una letteratura, prosastica e poetica, e anche una cinematografia: da chi se ne vuole andare, a chi vuole rimanere, a chi se n’è andato e vorrebbe tornare, a chi torna e si maledice, a chi non torna, e si maledice lo stesso.

Se proprio devo fare accostamenti, quelli che vengono spontanei, a uno come me, non particolarmente studioso di poesia, sono una triangolazione tra Pavese, da un lato, Scotellaro dall’altro, e gli ermetici, presi così in blocco, ungarettimontalequasimodo, scusate l’approssimazione.

Peppino nasce, come Pavese e Scotellaro, dall’epos contadino; la sua è poesia civile.

Le biografie sul web (http://web.tiscali.it/giuseppeiuliano/biografia.htm) descrivono  una tematica che “si iscrive nel grande filone della cultura meridionale e trova posto nel meridionalismo della ragione che si oppone in nome delle idee e dei valori civili al meridionalismo di potere e al potere…  una poesia civile, di protesta e di proposta, di condanna e di speranza; una poesia che condanna ogni approccio sentimentale alla questione meridionale”

Si direbbe un neorealista; in realtà, come anche nel verismo, il sentimento di fondo, l’attaccamento alla madre divenuta oggetto transizionale, ambiente (paese), e cultura, non può essere negato, nemmeno in Pavese e Scotellaro.

Entrambi sono legati alle origini; in tutti e due, almeno all’inizio, sul pessimismo della ragione prevale una speranza nel futuro e nella politica, che porta il lucano ad esprimersi in termini e canoni classici, a riprendere la poesia greca e romana, e in particolare i paesani suoi, il piemontese a ispirarsi all’epos omerico per raccontare in maniera quasi mitologica dei suoi conterranei emigrati nei mari del sud.

Bene; per il contenuto, allora, ci siamo: un paese ci vuole, è fatto giorno, siamo arrivati anche noi, che quando il sole si levava il giorno era già vecchio. Siamo arrivati coi panni e le facce che avevamo, e senza più valige di cartone e figure di santi nei cappelli.

Le differenze sono sulla forma: dall’epica omerica del Cesare Pavese dei Mari del Sud, al classicismo oraziano di Rocco Scotellaro, Peppe, ritroso come un po’ tutti i nuscani, scava il suo linguaggio nei moduli espressivi degli ermetici, nell’essenzialità dell’illuminarsi d’immenso.

La progressiva delusione degli anni più recenti, la scomparsa del mondo contadino, la corruzione della politica, portano sfiducia e scoramento.

E così fino a quest’ultima raccolta: “Adesso è il tempo della solitudine e della pausa, del riposo e della sconfitta… Abbiamo rinunciato a raggiungere il porto… È il tempo infausto dell’”autonomia differenziata”, della cicuta” (Paolo Saggese, nel risvolto di copertina).

Ne risulta un linguaggio conciso, scarnificato, essenziale, fatto di parole da pesare una per una. I suoi versi si attaccano alla Parola.

Non necessariamente la parola difficile o il termine rarefatto. Ci sono anche quelli, ma non si tratta di arditezza lessicale o compiacimento letterario.

Si tratta di ricerca di senso; la Parola come Verbo… Oddio, tranquilli: basta un avverbio, un semplice pronome, un aggettivo oppure un sostantivo.

Il termine viene assaggiato, rigirato in bocca come una caramella, assaporato fino in fondo, succhiato come il bambino succhia il latte, alla ricerca di nutrimento, significazione, illuminazione, liberazione.

Nella sua presentazione, Dante Maffia parla di “scoppi di luce” e di “rivelazione”.

Sempre sul risvolto di copertina, le parole difficili di Mino Mastromarino: “La scrittura poetica di Iuliano è predicabile di oscurità nell’accezione di rugosità semantica, di spia di poeticità. Ovvero di resistenza del testo alla lettura agiata… Il lessico… è costellato di inciampi di senso, che obbligano il lettore ad una impegnativa iterazione ermeneutica. È disposto a ospitare solo parole non inchinate”.

Del testo poetico, mi basta citare appena qualcosa, giusto per capirci, e concludere.

Da “Era un segno di croce”: “… I miei figli poveri di Dio/ compagno assente estraneo/ disertano qualsiasi chiesa/ orfana di buon samaritano/… Muore straniero il mio nome/ lacero confuso ubriaco/ aceto di un calvario senza Pasqua”.

Mi basta; il resto, leggetevelo da soli.

 

 

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