Ieri e oggi e domani?

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Sempre più spesso in questo tempo di grandi incertezze gli Irpini, e gli Avellinesi in particolare, mi chiedono perché questa parte dell’Italia abbia raggiunto un degrado così evidente, tale da uccidere ogni prospettiva di speranza. Se così è, e non vi sono dubbi, i motivi sono da ricercare certamente nel presente, ma soprattutto negli anni passati.

Volendo datare il percorso del degrado occorre, a mio avviso, riferirsi agli anni del dopo terremoto del 23 novembre 1980. Quella tragica vicenda, con le sue vittime e la devastazione di molti Comuni, delinea uno spartiacque tra ieri e oggi.

Che cosa era l’Irpinia prima del sisma? Una provincia povera, con le zone interne abbandonate, con una spaventosa emigrazione interna ed estera, ma con alcuni dati positivi che ne caratterizzavano l’identità: i valori della civiltà contadina con il rispetto verso gli altri, l’assenza della criminalità, il desiderio di impegnarsi in una trasformazione che potesse garantire una prospettiva di crescita.

Soprattutto, esisteva una comunità nella quale i riferimenti interpretavano i loro ruoli nell’interesse generale. La politica sapeva organizzare il futuro, i sindacati facevano da intermediari dei bisogni, la chiesa non era arroccata e la scuola licenziava intelligenze straordinarie che sono state determinanti nel sistema Paese. Questo scrigno valoriale è narrato dai fatti che faticosamente, ma con decisione e fermezza, segnarono quegli anni. Fu allora che si ebbe chiara l’idea che occorreva rompere l’isolamento delle zone interne con una rete infrastrutturale intorno a cui favorire occasioni di sviluppo. Con la nascita delle Regioni nel 1970, l’Irpinia non visse il complesso della sudditanza verso la grande metropoli napoletana, ma rispose con grande orgoglio ponendo il problema del riequilibrio territoriale.

L’autostrada del Sole, come la progettazione di unire i due mari, il Tirreno e l’Adriatico, con l’asse trasversale che da Caianiello raggiungesse Grottaminarda- Lioni- Contursi furono segnali di straordinaria rilevanza, tanto da sconfiggere l’arroganza di chi non aveva una visione progettuale nel contesto del Mezzogiorno. Fu in quegli anni che la Fiat arrivò in Valle Ufita, un tempo granaio dei Borboni. Pensandoci oggi, credo che tutto fu possibile perché la politica era vissuta con un forte senso di appartenenza e non solo per la conquista di un potere personale, ma come strumento per la crescita delle comunità. Erano i tempi in cui Federico Biondi e Italo Freda, il Pci come i liberali di Benigni o la destra di Acone e Fioretti, s’impegnarono per una città che ricongiungesse centro e periferia, con la presenza dei comitati di quartieri, prime cellule democratiche della realtà cittadina. E nei quartieri, mutuando la lezione di don Lorenzo Milani, si aprirono i garage per dare cultura ai meno abbienti. La stessa contestazione giovanile, nata intorno alla chiesa di San Ciro, di don Michele Grella e Pio Falcolini, segnò un momento di conflitto costruttivo tra una conservazione illuminata e un desiderio reale di cambiamento. L’Irpinia, nella sostanza, non fu mai marginale rispetto al resto del Paese.

A determinare la volontà positiva fu il ruolo della classe dirigente. Allora si forgiava, nei partiti, su alcuni valori in particolare: la passione per il proprio territorio, la capacità di fare squadra, l’ambizione di guardare oltre, immaginando che dal potere centrale potessero derivare benefici per la propria realtà. E così è stato per il periodo più luminoso che abbia attraversato l’Irpinia e il suo capoluogo. I nomi dei protagonisti sono scritti nella storia della concretezza di quegli anni.

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Il 23 novembre del 1980 giunge la tragedia del terremoto. L’Irpinia cambia pelle. Intanto si registra una mutazione nel comportamento della classe dirigente, parte di quella stessa che aveva cominciato a lavorare per un storia diversa dall’emarginazione. I fondi del terremoto distruggono il paesaggio rurale. “L’acchiappasubito” diventa occasione di ricchezza di pseudo imprenditori e tecnici che sopravvivono come la neve d’esta – te. Il nord faccendiere capisce l’affare e, non senza complicità, insedia nel cratere, ove si moltiplicano i nuclei industriali, aziende decotte con strumenti obsoleti. L’occupazione promessa è tradita. I miliardi stanziati, se è vero che diventano occasione per un diverso modo di vivere ambientale, favoriscono l’ ambi – zione fantasiosa di alcuni amministratori che si cimentano in costruzioni faraoniche che cancellano i valori della civiltà contadina. Ci sono opere, allora progettate, che a quaranta anni di distanza sono del tutto incomplete e inutili. La ferita del tunnel nella città di Avellino, per fare un esempio, è un tangibile segno delle scelte di quel tempo. Per la politica irpina e il suo livello di impegno nazionale, è una doccia fredda. La strumentalizzazione tenta la sua delegittimazione, l’Irpiniagate, e i conseguenti scandali, che solo in qualche caso hanno fondati motivi, portano a compimento la strategia della colpevolezza della classe dirigente. Il gioco è fatto. L’Irpinia che aveva conosciuto la grande solidarietà delle forze politiche nazionali vede infrangere quel miracolo e stenta a risalire la china. La disunità delle forze politiche e sindacali allarga ancora una volta le distanze tra nord e sud. Da quel momento, il degrado, già cominciato, avanza inesorabilmente.

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L’Irpinia che oggi viviamo è quella che mai avremmo voluto. E’ una provincia (e il suo capoluogo) che attraversa il momento peggiore della sua storia. La classe dirigente di un tempo, ormai in età avanzata, salvo qualche eccezione, si limita a gestire, in nome di un antico prestigio, qualche briciola di potere locale non senza quell’avidità che procura spesso tensioni. Se prima essa si era forgiata sull’unità di pensiero e di azione non ha fatto altrettanto rispetto alle nuove generazioni. Errore imperdonabile. Oggi c’è un deserto di pensiero e la vocazione, direi, di eutanasia, di reggere il mocco ai nuovi signori delle realtà limitrofe. Si è sfarinata la battaglia per il riscatto delle zone interne, svendute per qualche mancia localistica ad un governatore regionale che con la sua protervia ha cancellato quel residuo di competenze che pure non mancano. Nomine nella sanità e nel trasporto ne sono esempio. Come ai tempi dei romani ha promosso obbedienti centurioni a controllare il territorio, facendo leva sul servilismo di alcuni degli eletti nel consiglio regionale. Grazie a costoro è riuscito a piazzare un colpo mortale all’ospedale di Solofra con la soppressione del pronto soccorso. Che pena vedere un rappresentante irpino in Consiglio regionale assentarsi all’atto della votazione, per poi rientrare in aula. L’orgoglio del regionalismo di un tempo è stato soppiantato dall’ambizione del potere personale a danno delle comunità. L’individualismo ha vinto sulla razionalità strategica del gruppo. E che dire del degrado in politica? Da anni il Pd, espressione massima del consenso popolare, non riesce ad eleggere un segretario. Commissari vanno e vengono senza concludere nulla. Prima Ermini, poi quel galantuomo di Cennamo e oggi il pugliese Bordo che, a quanto pare, è stato inviato in Irpinia per favorire qualche gruppusculo. Non esiste più l’autono – mia dei responsabili locali del partito. Decide e detta legge chi dal vicino Sannio ha messo insieme un gruppo di trasformisti obbedienti alla logica “per grazia ricevuta”. E loro, gli irpini, si lacerano e si insultano come avveniva ai tempi dei briganti. Di più. Nella città capoluogo hanno appaltato il futuro a manovre speculative sull’onda di un populismo che è contro il popolo, sebbene sorridente e ammiccante.

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Come fermare questo degrado? Come dare un senso al futuro, pulendolo dalle nefandezze del presente e dai trasformismi che sono la piaga denunciata, tra gli altri, da De Sanctis e Dorso? La strada da percorrere è ricreare quel tessuto di pensiero e di azione locale che consente di liberarsi dalle dominazioni che sin qui hanno fatto il bello e cattivo tempo. Un ruolo fondamentale hanno i sindaci che sono il riferimento delle comunità e sui quali fanno carico enormi responsabilità. Autorevolezza e referenzialità, autonomia e non vassallaggio sono i percorsi da seguire. Impegno a favorire l’inserimento di giovani preparati e competenti nelle strutture di servizio per dare loro quella capacità progettuale che non solo è mancata sino ad oggi ma si è finanche rivelata essere danno come nel caso della restituzione dei fondi europei non spesi. Da qui, e non solo, occorre ripartire. Ora e subito che il miracolo del Recovery fund bussa ormai alle porte del Sud e dell’Irpinia. Basta con il voto di scambio, con le mortificanti clientele, con gli affaristi della politica, con i servi del potere. E’ giunta l’ora di dare una svolta radicale per progettare il futuro dell’Irpinia. E’ urgente ritrovare l’unità per costruire una visione dell’Irpinia del domani. Per questo abbiamo sollecitato attraverso il nostro “Manifesto per lo sviluppo” le persone di buona volontà a superare l’attuale degrado. Purtroppo siamo già in ritardo. Ciascuno vuole progettare per sé, manca una cabina di regia che finalizzi le risorse ad un grande progetto di sviluppo. Sia chiaro: questa insperata apertura europea non va dispersa. Si ritrovi la responsabilità che i tempi richiedono.

di Gianni Festa