Il lavoro ai tempi della globalizzazione

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I recenti dati Istat sul Pil, anche se cresce la metà della media europea, ha fatto ringalluzzire Renzi ed i suoi fedelissimi, che hanno annunciato, con evidente soddisfazione, la fine della crisi e la bontà delle riforme messe in campo che –secondo loro – hanno funzionato e cominciano a dare frutti. Anche la prossima legge di bilancio ubbidirà alle leggi di mercato con sovvenzioni generalizzate alle imprese e qualche spicciolo in bonus e regalie a fini elettoralistici. L’ipocrisia e il populismo non hanno limiti. Chiamano riforme quelle leggi (Jobs Act, innalzamento dell’età pensionistica ecc.) che riducono lo stato sociale e le garanzie dei lavoratori e che hanno reso stabile la precarietà e fatto avanzare la povertà.

Assecondare il mercato è l’unico obbiettivo e la “flessibilità” è ritenuta la via maestra per la crescita e l’occupazione. Il lavoro è divenuto un elemento ininfluente e non costituisce più un valore fondante della Costituzione che, non a caso, volevano demolire come, nei fatti, stanno facendo. La flessibilità intesa come sinonimo di libertà di movimenti di capitali, ma non di lavoro; come assenza di regole e di dazi, possibilità di spostare imprese da un Paese all’altro, progressiva riduzione delle garanzie dei lavoratori e del lavoro; come scempio del territorio e dell’ambiente, condoni e politica di privilegi. E’ il vademecum di una classe politica sempre meno autonoma dal potere finanziario che la guida e la controlla fin nei minimi particolari, dettando comportamenti e leggi e rendendola subalterna.

Sono le regole del Dio Mercato e della globalizzazione. Ormai gli Stati – come sostengono molti sociologi – con in testa Bauman – sono diventati “Stati capitalistici”. Il capitalismo è peggiorato con la globalizzazione: prima tendeva allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ora tende alla sua esclusione. La flessibilità, per Bauman, è sinonimo di precarietà, incertezza, turbolenza, instabilità, volatilità, transitorietà e liquidita. Non a caso è la caratteristica di una società “liquida”, come quella di oggi che non ha forma solida ed è soggetta ad un continuo ed incessante cambiamento.

Leggere o rileggere, in questa ottica, il saggio di Bauman “Capitalismo parassitario” (Laterza 2009) è sommamente istruttivo e molti politici, che non ne conoscono le opere, dovrebbero leggerlo e meditarvi a lungo. In questo saggio Bauman sostiene che il capitalismo è un sistema parassitario. Cresce se vi sono, e fino a quando continueranno ad esserci, terreni vergini da sfruttare. Non risolve i problemi ma li aggrava e crea esclusione: “Di regola le politiche dello Stato capitalista <dittatoriale> o <democratico> vengono costruite e condotte nell’interesse, non contro l’interesse dei mercati … (per) avallare/consentire/garantire la sicurezza e la longevità del dominio del mercato … lo Stato sociale… viene deliberatamente smantellato perché le fonti di profitto del capitalismo si sono spostate dallo sfruttamento della manodopera operaia allo sfruttamento dei consumatori. E perché i poveri, spogliati dalle risorse necessarie per rispondere alle seduzioni dei mercati consumistici, hanno bisogno di denaro – non del genere di servizi offerti dallo <Stato sociale>- per risultare utili secondo la concezione capitalista dell’utilità.” (pagg.27/28). Perciò si assiste ad una progressiva privatizzazione del sociale, e ad uno stato sociale per i ricchi (salvataggio delle banche, tutela dei manager e dei poteri forti ecc.). Le banche generano profitto dai debiti, fanno una politica del debito (vedi carte di credito): i mutui subprime, che hanno generato la più grande crisi finanziaria dopo quella del ’29, sono stati voluti da Clinton! Così fanno gli stati capitalisti. Chi si preoccupa del debito pubblico italiano (tra i più alti del mondo)? Non i politici che vogliono che l’Europa consenta di farlo aumentare ancora (lo chiamano flessibilità!) per favorire – dicono- la crescita!

Il consumismo, ormai, non consiste nel procurarsi oggetti, ma nel goderne una tantum e sostituirli con i nuovi che il mercato offre con le più ampie facilitazioni e, spesso, a debito. Il vivere a debito è uno stile di vita reclamizzato ma che fa aumentare la povertà. In passato prima si mettevano da parte i soldi e poi si acquistavano gli oggetti o si andava in vacanza. Oggi avviene il contrario: prima si va in vacanza e poi si paga, prima si prende la macchina e poi si comincia a pagare. Conseguenza delle leggi di mercato è la cultura dell’offerta che cambia continuamente adeguandosi ad una società che é in continua trasformazione. Una società, appunto, “liquida”.

La fine delle ideologie é sufficiente a determinare anche la fine delle idee? L’obbiettivo della politica (se non altro di quella di sinistra) non è forse immaginare un modello alternativo di società, più vivibile e più a misura d’uomo? O, quanto meno, di limitarne gli effetti più negativi sugli uomini? Papa Francesco pensa di sì e non, a caso, è l’unico “politico” che abbiamo in Italia!

NINO LANZETTA