Il lavoro nell’era della globalizzazione 

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Ha ancora senso la festa del primo maggio, che è sempre meno la festa dei lavoratori e sempre più il concerto di piazza San Giovanni, otto ore di musica per la gioia di migliaia di ragazzi e di giovani che il lavoro non ce l’anno e stentano a trovarlo o non lo trovano affatto? Ha ancora senso che l’Italia, nell’era della globalizzazione, continui ad essere caratterizzata come “una repubblica democratica fondata sul lavoro” come recita l’art. 1 della Costituzione che ne tutela, nei principi generali, il diritto e la funzione morale e sociale.

Come fa con gli artt. 35 e 36 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” .E “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”) ? Nell’era della globalizzazione, è ancora il lavoro un propulsore di sviluppo, di benessere di elevazione morale e civile come lo è stato nei due secoli precedenti?

Oggi le cose sono terribilmente cambiate. Il lavoro è stato marginalizzato e i sindacati, sulla spinta della Fiat (che, poi, ha lasciato l’Italia!) sono stati costretti all’impotenza e allontanati dalle fabbriche: ridotti al silenzio e perfino umiliati. Eppure hanno avuto un grande ruolo nell’industrializzazione del nostro Paese, e nel “miracolo” italiano, praticando, dopo la crisi del 1978, una politica moderata. Dopo anni di rigidità della forza lavoro e le numerose norme a garanzia dei lavoratori culminate con lo Statuto dei lavoratori del 1970 che dettava “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” c’è stata la svolta dell’Eur con Carniti, Benvenuti e Lama, il quale, in una famosa intervista a E. Scalfari nella Repubblica del 24.1.1978, dichiarava che il salario non poteva essere più considerato una variabile indipendente, come era avvenuto fino ad allora, ma doveva considerarsi legato alla produttività. In cambio di rivendicazioni contenute e di una maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro, il sindacato chiedeva che si effettuasse una politica di sviluppo e di piena occupazione e la possibilità di poter dire la su sui temi della politica economica, degli investimenti e della fiscalità. Era una svolta importante che caratterizzava la serietà dei sindacati confederali che si facevano carico dei problemi del Paese rivendicando la loro parte di protagonismo: insomma, la richiesta di coinvolgimento nella politica di programmazione tanto cara a La Malfa. Non sempre, dopo la morte di Lama, per il proliferare dei tanti sindacati “autonomi”, è stata coraggiosamente proseguita la linea confederale.

Poi sono venuti Berlusconi, Renzi, Marchionne, la globalizzazione e le cose sono precipitate. Le regole sulla tutela del lavoro e dei lavoratori sono state smantellate ed allo Statuto del lavoratori si è sostituito il Jobs Act; la flessibilità del lavoro ha assunto connotati inimmaginabili con piena libertà di licenziare e con decine e decine di tipologie di lavori precari senza alcuna tutela e con salari di fame, con assunzioni a chiamata diretta ed anche per poche ore al giorno. Nel contempo non si è avuta, in tutti questi anni, alcuna seria politica industriale, si sono svenduti ai privati e all’estero i gioielli di Stato e le industrie più competitive e si è assistito passivamente ad una delocalizzazione selvaggia. Come se non bastasse, si è smantellato lo stato sociale e la legge Fornero è l’ultima stretta, in ordine cronologico, sulle pensioni, dove eravamo all’avanguardia in Europa e nel mondo riducendole poco più di un obolo sociale e non ci si ferma qui. Non parliamo della sanità, ridotta ai minimi termini.

I giovani, se saranno fortunati, dovranno cambiare lavoro numerose volte nella loro vita lavorativa percependo salari di fame e con il risultato di conseguire una irrisoria pensione. In tutta questa situazione non si è mai messo mano a predisporre misure di protezioni del reddito, mettere in campo seri ammortizzatori sociali, ad intraprendere una efficace politica di addestramento professionale e di qualificazione né un serio rapporto scuola lavoro o un funzionale avviamento al lavoro, ma soprattutto si è evitato in tutti i modi possibili di coinvolgere i lavoratori (cioè i loro sindacati) nei processi di trasformazione della società, facendoli partecipare, da attori responsabili, alla politica di ripartizione del reddito e del lavoro, come pur avviene in altre nazioni europee come la Germania. E questa strada é l’ultima trincea del sindacato se non vuole scomparire per sempre. Altro che festeggiare il primo maggio! E’ tempo di riflessioni importanti: Di Maio e Salvini ne saranno all’altezza?

di Nino Lanzetta edito dal Quotidiano del Sud