Il Napoli del riscatto possibile

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Una città, una squadra, un giocatore che è il simbolo stesso del gioco del calcio. Raramente si forma questa simbiosi ma quando c’è nasce un miracolo che viene ricordato a trent’anni di distanza. Il 10 maggio del 1987 il Napoli vince il suo primo scudetto. E’ ancora l’epoca delle maglie dall’uno all’undici, ma la dieci è di un giocatore solo: il “Dio” del calcio, Diego Armando Maradona. L’anno prima ha trascinato l’Argentina alla vittoria nei mondiali in Messico. Con l’Inghilterra ha segnato due gol. Il primo è passato alla storia come “la mano de Dios” e il secondo come quello del secolo perché ha dribblato metà squadra inglese. La giornalista Emanuela Audisio ha scritto che Maradona “vinse una partita, pareggiò una guerra (quella delle isole Falkland) e sorprese un secolo”. Buenos Aires, Barcellona e Napoli. Tre città che hanno amato e adottato Maradona che nella capitale del Sud ha però trovato il genio e la forza per vincere due campionati. Una squadra pressoché perfetta che unisce il fuoriclasse con altri ottimi giocatori come Giordano, Bagni, l’irpino De Napoli, Carnevale che ad Avellino ci ha giocato e l’allora giovanissimo Ciro Ferrara. In porta c’è il funambolico Garella, e poi il guerriero Bruscolotti, il libero Renica e lo stopper Ferrario. Il puzzle sembra riuscito ma è in autunno che un altro irpino, il manager Pierpaolo Marino trova il tassello giusto e lo pesca in serie B. Dalla Triestina arriva il regista Francesco Romano non un nome da top player ma l’elemento che fornisce equilibrio. Tra i rincalzi il siciliano Volpecina e Gigi Caffarelli, dal quartiere Sanità, l’apache del contropiede. L’allenatore è Ottavio Bianchi, un altro che ad Avellino ricordano bene per aver allenato la squadra irpina . A Napoli lo ha voluto Marino. Bianchi organizza la squadra intorno a Maradona e riesce nell’impresa di vincere lo scudetto addirittura con una giornata di anticipo. La partita decisiva si gioca al San Paolo il pomeriggio del 10 maggio. Ottantamila spettatori e una città in festa. Il Napoli passa in vantaggio con un gol di Carnevale. Pareggia Roberto Baggio, un ragazzino di vent’anni che diventerà uno dei più grandi calciatori italiani. Un solo punto ma sufficiente per scatenare uno stordimento generale. Lacrime di gioia e un uragano di botti e fumogeni azzurri e tricolori. Lo stadio che con una voce sola canta sulle note di “O surdato ‘nnamurato” “oi vita oi vita mia, oi core e chistu core”. Qualcuno si ricorda anche di chi non c’è più e scrive sui muri del cimitero: “e non sanno che se so perso!”. Maradona era ed è popolare almeno come Totò o Eduardo e questa la dice lunga su come una comunità, un popolo si identifica in una passione. Pier Paolo Pasolini scriveva anni prima che i “napoletani sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto e nella savana come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso di estinguersi rifiutando il nuovo potere, ossia quello che chiamano la storia, o altrimenti la modernità. La stessa cosa che hanno fatto nel deserto i Tuareg e nella savana i Boja; è un rifiuto sorto nel cuore della collettività, una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare”. Maradona e quella squadra capovolgono questa impostazione malinconica, gridano all’Italia e al mondo che si può vincere, che si può spezzare il potere costituito. Non per una questione di fortuna di una stagione, ma perché si è più forti, c’è una strategia alle spalle. Quel Napoli diventa insomma il simbolo di un riscatto possibile, di un Mezzogiorno vincente e non eternamente perdente.
edito dal Quotidiano del Sud