Il Partito Comunista 101 anni dopo. Intervista all’On. Angelo Flammia

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Di Matteo Galasso

A 101 anni dalla fondazione del Partito Comunista Italiano, gli ideali che fino alla sua dissoluzione nel 1991 hanno animato le piazze, sono pressoché svaniti. Ripercorrendo le varie tappe e le battaglie del Pci, pilastro fondante della storia della nostra Repubblica, si può constatare che la politica, intesa come servizio volto ai cittadini, rappresenti oggi nient’altro che un ricordo. La classe dirigente del nostro Paese mette, infatti, in secondo piano la partecipazione popolare, per favorire, spesso, gli interessi dei grandi capitali e dei pochi che detengono la maggior parte delle ricchezze. In un momento in cui i partiti e i movimenti politici hanno cessato di essere uno strumento di partecipazione popolare, parliamo con uno degli esponenti di un’istituzione che di questi valori rappresentava la massima espressione: il senatore Angelo Flammia.

Senatore Flammia, ci racconti come ha vissuto, da irpino, la sua esperienza politica e il suo rapporto con l’apparato burocratico e ideologico del Partito Comunista italiano. Ci riassuma le tappe della sua vita politica e ci spieghi com’è entrato a contatto con il Partito.

Mi sono iscritto al Pci di Grottaminarda nel 1960, quando, appena diplomato, ho deciso di avvicinarmi al mondo della politica. Ho cominciato la mia attività di militante solo dopo il terremoto del 21 agosto 1962, iniziando a frequentare attivamente varie sezioni del Partito, radicate pressoché in ogni comune. Il più grande ricordo che ho di quegli anni è legato alla viva partecipazione della collettività alla cosa pubblica. Paradossalmente mi ritrovai ad essere l’unico studente tra operai, agricoltori e braccianti, dato che, al contrario di oggi, l’attività politica era accessibile a tutti. Inoltre, nonostante la maggior parte degli iscritti non avesse superato la terza elementare, il livello d’informazione era decisamente più alto rispetto ad oggi, grazie alla diffusione mediatica che operavamo attraverso giornali e manifesti; quando frequentavo l’Università, infatti, mi seguivano addirittura nell’attività studentesca. Divenuto consigliere comunale dopo pochi anni, ho subito potuto apprezzare l’enorme partecipazione popolare alle assemblee cittadine, dove prima di decidere si dibatteva arditamente: oggi questi organi non sono che sulla carta, il potere decisionale è infatti decisamente più concentrato nelle mani delle giunte. Sono poi diventato consigliere regionale nel 1975 e Senatore nel 2001. Entrato in Parlamento, ancora assistevo a dibattiti attivi ed iniziative concrete, mentre, specialmente con l’ultimo governo, credo che il legislativo abbia perso quel ruolo di iniziativa che aveva prima: non si fa altro che ratificare al massimo i decreti governativi.

Il Partito concentrava la maggior parte dei propri consensi in zone ricche di produzione agricola e industriale. Quali erano le battaglie combattute nel Mezzogiorno e in una realtà rurale primitiva e povera di risorse prime, quale la provincia di Avellino ante-sisma?

Quasi ogni domenica ci occupavamo di volantinaggio e dibattiti riguardo questioni locali, provinciali regionali o nazionali. Portavamo avanti conflitti d’interesse molto aspri: ad esempio contro l’allora ministro dei lavori pubblici, Fiorentino Sullo, cui, dopo tanti anni, riconosco essere stato, specialmente a confronto con la classe politica di oggi, un grande ministro. I cambiamenti che abbiamo apportato sono stati evidenti: mi sovviene l’eliminazione del Censo, che costringeva buona parte dei piccoli proprietari terrieri e contadini a versare un’imposta annuale alla Chiesa. Ci impegnavamo poi – essendo l’Irpinia una terra povera di infrastrutture – nella creazione di strade, condutture, elettrificazione, diffusione del telefono, ma anche dei servizi sociali sanitari di base e delle scuole. Quando mi sono laureato, infatti, nel 1966 a casa non avevo la luce elettrica. Alcuni risultati li ottenevamo anche contro le prevaricazioni economiche e sociali nei confronti dei più deboli. Da consigliere regionale ho potuto, fin da subito, costatare il livello di corruzione dell’apparato politico, quando, ad esempio, dopo il terremoto del 1980, le ingenti somme di denaro volte a favorire la ricostruzione erano spesso al centro di scandali.

La storia del Comunismo in Italia è contraddistinta da cambiamenti radicali che ne hanno deviato significativamente il corso: ricordo l’inizio dell’eurocomunismo di Berlinguer prima –  che poneva fine al comunismo rivoluzionario, aprendo la strada ad un eventuale scenario di governo – e la Svolta della Bolognina dopo. Parliamo di processi inevitabili sulla base dello scenario politico internazionale. Con la premessa che i valori del marxismo sarebbero rimasti al centro della linea politica da ereditare, si è presto giunti a derive neo-liberiste che nulla hanno a che fare con i valori democratici e sociali del Pci.

Non ricordo di aver accolto bene questi passaggi e ciò trova conferma nella situazione cui siamo giunti oggi. Ritenevo che un cambiamento ideologico fosse necessario e supportavo la linea del dialogo portata avanti da Berlinguer, ma mai avrei pensato a una deriva liberista di questo calibro. I problemi sono iniziati dopo la caduta dell’Urss, alla quale non si poteva restare certo indifferenti, ma penso che le cose siano andate precipitando dal 2007, dopo la nascita del Pd, che forzava l’unione di tradizioni concettualmente diverse, quelle di DS e Margherita, che avrebbero potuto invece coesistere in una federazione. Da allora la politica ha perso un garante della difesa dei diritti degli ultimi e qualcuno che si occupasse, al di là degli slogan, di disuguaglianze, di divario tra nord e sud, di proposte che non riguardassero la spartizione di poltrone. Tutto ciò ha portato il dibattito politico a smettere di focalizzarsi sui problemi. Personalmente non rinnovo la tessera dall’inizio della segreteria Renzi. La fine delle forze marxiste doveva essere evitata: pensare che pochi giorni fa ho letto che le 40 persone più ricche d’Italia detengono quanto 20 milioni di cittadini. La cosa più triste è che i nostri giovani si trovino a far fronte a questi problemi come se li avessero creati loro. Non biasimo la loro delusione: sono sconvolto anch’io!

Sembra che nessuno si occupi concretamente del fenomeno di spopolamento dalle aree più depresse del Paese, che interessa, soprattutto, i giovani.

L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, recita il primo articolo della Costituzione. Ma ciò che traspare è l’abbandono dei giovani e del Mezzogiorno da parte di una classe politica che spesso non applica questi principi. Dall’Italia emigrano ogni anno decine di migliaia di giovani laureati, che  devono accontentarsi di lavoretti all’estero, non nascono bambini e i matrimoni sono diminuiti drasticamente, così come l’età nella quale si raggiunge l’indipendenza economica, tutto questo parte dalla situazione di precarietà del lavoro. Stavamo meglio quando stavamo peggio: ai miei tempi, infatti, non esistevano certamente tutte le comodità odierne, ma io ricordo di essere stato assunto due mesi dopo la laurea, mentre mia figlio, plurilaureato, è stato costretto a cercare lavoro in Spagna.

Ad oggi, tutti, da sinistra a destra, guardano alla storia del Pci e ai suoi valori con rispetto e ammirazione: quali sono i valori portati avanti da Gramsci, Togliatti e Berlinguer permeati in modo irreversibile nella nostra democrazia?

Mi duole ammettere che di quei valori democratici sia rimasto ben poco. In passato davamo priorità all’eguaglianza sociale e territoriale, Berlinguer aveva, inoltre, posto il requisito dell’integrità morale della politica, che oggi è stato soppiantato da un’irrefrenabile corruzione e dall’ingiustizia sociale che fa carico sui deboli e permette ai forti di pagare imposte ridicole, scaricando il peso su chi vuole costruirsi da zero. La democrazia non può e non deve definirsi tale se rifiuta di trovare delle soluzioni a questi problemi.

Il culto degli “uomini della provvidenza” in politica.

Sono un pericolo per la democrazia, che ha il dovere di coinvolgere nelle decisioni la totalità della popolazione. Un valore così importante non può essere affidato a dei tecnici, che, anche se stimati, si rivelano spesso a servizio dei grandi poteri. Non sono contento dell’attuale governo e non credo possa assolutamente risolvere le tante e complesse problematiche che stiamo vivendo.