Il referendum ha già cambiato la politica

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A due settimane dall’appuntamento del referendum sono stati pubblicati gli ultimi sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani. D’ora in poi i rilevamenti potranno essere ancora effettuati ma non potranno essere resi noti: differenze più o meno marcate fra le cifre pubblicate ieri dai giornali, ma il dato di fondo è univoco: il No è previsto vincente quasi ovunque, con una forbice di 4-8 punti (per alcuni sondaggisti il distacco sul Sì è anche superiore), ma il numero degli incerti varia dal 15 al 25 per cento. Curioso perché il voto referendario non comporta, come il voto politico, la scelta fra dieci quindici opzioni, ma una discriminante secca: o sì o no. Altro dato accertato è quello sull’affluenza alle urne che, pare, non dovrebbe superare di molto il 50% degli aventi diritto, e questo dovrebbe preoccupare non poco i responsabili dei due schieramenti che si contendono la vittoria: se dieci mesi di intensa campagna elettorale non hanno ancora convinto la metà degli italiani ad andare ai seggi, e se (altro elemento preoccupante) solo poco più della metà di chi ci andrà conosce più o meno bene la materia su cui sarà chiamato a scegliere, vuol dire che il distacco fra il Paese reale e la classe politica, tutta, si è ulteriormente accentuato e che tutti i partiti, e le stesse istituzioni, soffrono di un deficit di legittimazione popolare. C’è di che essere allarmati, nella speranza che il 5 dicembre, a prescindere dalla soddisfazione dei vincitori e dal rammarico degli sconfitti, le cifre dell’affluenza siano diverse da quelle, deludenti, che oggi vengono annunciate. Anche per questo motivo prendiamo i sondaggi con le molle e preferiamo aspettare che vengano contati i voti effettivamente espressi; del resto il fallimento quasi totale dei sondaggisti in occasione delle presidenziali americane induce alla prudenza nei pronostici. Se queste sono le premesse, su che cosa si può ragionare alla vigilia del voto? I commentatori, anche i più autorevoli, si affannano a cercare di indovinare che cosa potrà accadere dopo il 4 dicembre: quale governo, quale formula parlamentare, quale leader emergerà dalla vittoria del Sì o del No. Esercizio interessante ma molto teorico, per non dire scarsamente fondato, troppe essendo le incognite da prendere in considerazione. Per restare sul concreto e su dati di fatto verificabili, si può solo riflettere su come questa lunghissima e anomala campagna elettorale ha già modificato il panorama politico italiano, trasformando i partiti, incrinando le alleanze, autorizzando o spegnendo ambizioni di leadership. Già l’esame del terreno di gioco in cui si contrappongono i fautori del Sì e del No è a suo modo istruttivo: da una parte il solo Matteo Renzi, dall’altra un’alleanza di fatto fra capipartito che più eterogenei e litigiosi non potrebbero essere. Facile prevedere che in caso di vittoria di questo composito schieramento, mentre Beppe Grillo continuerebbe a coltivare il suo splendido e finora redditizio isolamento, a destra nascerebbe immediatamente un conflitto per la guida dell’alleanza, galvanizzata dal risultato ma divisa su tutto il resto: dall’Europa ai migranti, dalla politica di sicurezza ai diritti civili. Salvini si è già candidato a palazzo Chigi, Giorgia Meloni punta sulle primarie di coalizione per ritagliarsi uno spazio oltre i magri risultati finora ottenuti alle elezioni, Silvio Berlusconi, riluttante sostenitore del No, avrebbe ben poche chance di vedere confermata la sua posizione privilegiata nell’alleanza che finora è riuscito a mantenere sacrificando uno dopo l’altro tutti i “delfini” che si era scelto (ultimo della serie Stefano Parisi). Una confusione di programmi, linguaggi ed ambizioni che sembra fatta apposta per convogliare sui Cinque Stelle la marea dell’insoddisfazione e del rancore che normalmente gonfia le vele della destra, come confermato dall’elezione di Donald Trump. Anche a sinistra le prospettive non sono rosee: sia che vinca, sia che perda, Matteo Renzi si troverà fra le mani un partito lacerato, in preda a polemiche accanite. Ben oltre la scomposizione fra sostenitori e contrari alla riforma costituzionale, è il progetto del Partito democratico che risulta vittima della campagna referendaria, senza che il segretario-presidente sia riuscito a indicare ai suoi stessi sostenitori un orizzonte politico diverso e più attraente. Il cosiddetto PdR (il Partito di Renzi) non nascerà dalle urne referendarie; il Pd rischia di venirne seppellito. E anche gli oppositori del leader avranno poco da festeggiare.
edito dal Quotidiano del Sud