Il valore della comunità 

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Il termine “comunità”, quasi scomparso dal lessico politico dei vecchi partiti italiani, a cominciare dal PD, è ricomparso per bocca dell’attuale segretario nazionale del partito democratico Maurizio Martina. Lo ha delineato visitando una realtà periferica di Roma, Tor Bella Monaca, per incontrare direttamente le persone portatrici di bisogni materiale ed immateriali di quella comunità.
Probabilmente il tentativo di Martina è quello di riscoprire – direttamente sul campo – le radici storiche ed ideologiche dei democratici italiani, spinto dal convincimento che gli ex elettori del Pd, attualmente in libera uscita, non percepiscano più le ragioni di un approdo credibile sulle sponde di un partito distante anni luce dall’animo popolare della fasce operaie e del vecchio ceto medio italiano. Il problema, frattanto, non è solo la declinazione del termine “comunità” ma è quello di delineare, con coraggio e determinazione, un percorso politico e programmatico sulle regole e sul connettivo di principi e di valori – etici, civili e sociali –che ricostruiscano la trama di un tessuto comunitario, ormai senza più un ordito solido. Spesso, nell’interno dell’attuale dibattito culturale e politico, ho sentito un’espressione che mi ha particolarmente colpito:” Osare la comunità”. Anch’io, sin dalla mia prima esperienza associativa universitaria, vengo dagli ambienti culturali dove il termine “comunità” veniva non solo declinato, ma proposto come percorso da compiere nella quotidianità del proprio ambito relazionale, con la ricerca costante di solidarietà e di confronto che non si rivelava mai scontro. Questa ricerca era sempre accompagnata da una sorta di malessere tra il capire le cose e poi tradurle nella realtà. Cosicchè, con la maturità delle esperienze accumulate e con l’accresciuta complessità delle attuali dinamiche sociali, mi pongo ancora una domanda: “Oggi è ancora possibile osare la comunità”. L’altra domanda che mi ha sempre procurata inquietudine – sindrome positiva che ha costantemente animato il mio percorso esistenziale – è questa: perché i religiosi, i frati, le suore, i missionari nelle zone più difficili dell’Africa, si buttano con coraggio ammirevole a fare tante cose eccezionali per tentare di costruire un minimo di tessuto comunitario e noi laici – qui ed ora nella nostra provincia, nella nostra regione, in Italia – non riusciamo nemmeno a suscitare l’interesse culturale dei nostri giovani sul concetto di comunità? Gira e rigira, alla fine, mi convinco che la risposta è nella stessa comunità. Alla fine i nostri dubbi, le nostre paure di cadere nel vuoto della disattenzione, sono vinte dalla prospettiva d’impegno della parabola dei talenti: ognuno possiede almeno un oncia di capacità per dire, operare, costruire insieme ad altri una rete comunitaria dove l’ascolto, il dialogo, l’agire per il bene comune diventano stili di vita di una comunità viva, partecipe, protagonista del proprio agire civile e sociale. La comunità dunque non è qualcosa che si sostituisce a noi, una coperta che copre tutto, ma una realtà che aiuta a tirare fuori i talenti che abbiamo dentro. Un partito politico, in coerenza con i propri principi costitutivi, deve aiutare i cittadini, preferibilmente i suoi lettori, a essere destinatari di questo processo maieutico di tirar fuori le proprie potenzialità inespresse: il consenso e la militanza hanno bisogno di questo radicamento interiore per combattere il clientelismo, la disaffezione per la politica e l’approdo protestario in lidi senza futuro. Quando Martina parla di “comunità” lo fa solo perché ritiene che il suo tentativo è una mera esigenza da soddisfare o è preferibilmente convinto che l’humus culturale e politico necessario per ricostruire una comunità coesa, attiva e responsabile è quello del cattolicesimo sociale – la cui declinazioneè del tutto scomparsa dal lessico politico del PD – aperto alle istanze di un autentico rinnovamento di forze laiche sinceramente riformiste? Martina, altresì, dovrebbe essere convinto che il confronto interno al partito e il recupero del proprio elettorato, parte dalla chiara riproposizione delle proprie radici culturali e politiche e non dal timore di essere nostalgici di un significativo passato di cui, stupidamente, si è perduta la memoria e il respiro delle sue proiezioni attuali.

di Gerardo Salvatore edito dal Quotidiano del Sud