Il ventre putrido di una città

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Ora basta. Questa città non può essere ulteriormente mortificata. Padroni e padrini si facciano da parte. La società civile trovi la giusta indignazione. La vicenda dell’Acs mette a nudo una cruda realtà: c’è un marcio insopportabile nel ventre di Avellino. E’ frutto di un immondo sistema che genera impunità. A tutto questo corrisponde la mummificazione del Comune che si sente assediato e non trova il coraggio per reagire. Manca trasparenza, la legalità non abita in alcune istituzioni e il ruolo della magistratura diventa riferimento per la parte sana della città. Qualcuno tenta di trascinare l’azione dei magistrati in una sterile polemica. E’ la reazione di chi, attraverso pedine messe nei posti di comando, ha reso il clima maleodorante in un ambiente che non sopporta intromissioni che smascherano la malapolitica. Sia chiaro: il caso Acs è solo la punta di un iceberg di un sistema che ha condannato questa città a vivere diseguaglianze, consentendo umiliazioni e mortificazioni dei meritevoli. L’appartenenza al sistema infetto ha fatto sì che i servi assurgessero a posti di responsabilità, mentre i meritevoli venivano costretti a ripiegarsi nel privato. Ecco la crisi della politica cittadina. Parte da tutto questo. Malapolitica e burocrazia marcia sono il cancro contro il bene comune. La prima, la malapolitica, ha consentito che la città venisse depredata nel suo tessuto urbano e sociale, che la speculazione edilizia divorasse quel verde che illuminava un antico paesaggio, che il malaffare nella gestione degli enti pubblici potesse godere di protezioni che hanno consentito sprechi, sperperi, ruberie. Oggi quel velo di impunità comincia ad essere squarciato. Lo consente la fine di una classe dirigente politica famelica e nepotista, incapace di coltivare un sogno per la rinascita della città. Gli uomini al vertice delle istituzioni sono cooptati, appartengono a chi ha fatto del voto di scambio un metodo per togliere la dignità al cittadino. Quasi sempre essi non sono espressione dell’applicazione di criteri meritocratici, ma sono il risultato di scelte veriticistiche. Uomini inventati, lontani dall’etica della responsabilità. Che dirigono il traffico nelle segreterie dei potenti. E’ talmente enorme il concetto di impunità che consente di utilizzare beni pubblici per interessi personali che è paragonabile ad una mafia bianca. Il televisore dell’ufficio portato a casa propria, la bici utilizzata per fatti personali, l’assicurazione all’auto usata per scopi personali, pagata con i soldi pubblici, la cancellazione delle scritte dall’auto dell’azienda a cui si appartiene per farne uso privato non sono certo un grande affare, ma testimoniano una generale corruzione, una mente corrotta che gestisce tutto. Perché ciò è possibile? Probabilmente perché questo modo di agire consente l’acquisizione del consenso, che è lo strumento genetico del malaffare. E i controlli? Inesistenti. Non solo per incapacità, ma perché essi andrebbero a spezzare la catena del sistema infetto che governa i processi. Un amministratore onesto non teme la magistratura, dialoga con essa. E se si trova nelle condizioni di diventare inconsapevole complice dell’illegalità, denuncia chi intende trascinarlo nel fango. Qui, invece, spudoratamente si usano espressioni ingiuste ed ingenerose nei confronti dei magistrati nel tentativo di di irretirli, confondendo il problema. Al cittadino onesto non interessa chi guida un ente di servizio: pretende che esso sia governato nell’interesse della comunità, per il raggiungimento del bene comune. Oggi, invece, il sistema corrotto non consente che il cittadino sia autonomo nel giudizio sull’operato degli amministratori, ma soggetto suddito, perché soggiogato dal bisogno. Ci si chiede: è mai possibile che in una piccola realtà urbana possano verificarsi vicende così miserevoli, paragonabili solo ad un meschino accattonaggio? La risposta non può che essere positiva alla luce delle intercettazioni emerse dai verbali degli organi inquirenti. Il posto di lavoro diventa sudditanza nei confronti di chi lo concede, il contributo per una manifestazione assurge a richiesta di obbedienza e gratitudine, la raccomandazione finisce per creare una società di diseguali. E’ il cane che si morde la coda. C’è un dato che sconvolge la coscienza degli onesti: è quello che riguarda i mestieranti della politica che hanno accumulato incredibili fortune. Pittori di appartamenti che sono diventati grandi imprenditori nel volgere di poco tempo, mediocri geometri che hanno fatto la loro fortuna con i fondi per la ricostruzione del terremoto, dirigenti pubblici che si consentono di abitare faraoniche ville sono gli esempi più eclatanti che portano a concludere che il meccanismo corruttivo non è solo un caso, ma un costume che impregna la nostra realtà. Se questo è, e non mi pare che vi siano dubbi, che cosa fa chi dovrebbe controllare? Scarica le responsabilità su altri, nel becero tentativo di crearsi una propria verginità. A chi era funzionale la gestione dell’Acs? Chi ne riceveva vantaggi? E l’arroganza con cui la società veniva gestita perché non ha mai subito moniti? Anche su questo una risposta si può trovare osservando consiglio comunale e giunta del capoluogo. Le società partecipate, che dovrebbero gestire con il controllo del Comune capoluogo, sono diventati centri di potere senza controllo. Bastava tenersi buoni amministratori e consigliere con una miserevole mancia e gli occhi diventavano ciechi. Così per l’Acs, per l’Alto Calore, per il Teatro Gesualdo e per i tanti pezzi di gestione a partecipazione che caratterizzano il pianeta comunale. Una cosa è certa: Foti deve decidere. O punta i piedi e comincia a fare pulizia davanti al proprio uscio o egli sarà travolto da questo meccanismo che non perdona niente e nessuno. Decida. Non sfogli la margherita. Dia un segnale forte. Denunci a chiare lettere tutto quello che sa e non dice. Non diventi complice del malaffare. Se non ha il coraggio passi la mano. Glielo chiede quella parte sana della città che si vergogna di quello che sta accadendo.

edito dal Quotidiano del Sud

di Gianni Festa