Il vuoto dei partiti

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Nella sua opera più importante, il filosofo francese Lyotard decretava il funerale della modernità, giunta ormai al suo compimento e il passaggio all’epoca del postmoderno. Il tentativo di conferire un senso globale alla realtà, individuandone i fondamenti, è qualcosa che ormai appartiene al secolo scorso, epoca ancora dominata dalle “grandi narrazioni”. Nella fluidità post-moderna, abbattuti i vecchi punti di riferimento, l’uomo non ha ancora costruito bussole altrettanto forti del proprio pensiero. La frantumazione ha fatto emergere nuove pluralità, che hanno decretato la fine dei vecchi partiti tradizionali. Il dominio della forma-partito novecentesca è finito e con esso anche una determinata tipologia di rappresentanza. A indagare su questa delicata transizione storica e sui meccanismi contemporanei di partecipazione alla vita collettiva è Marino De Luca (Docente di Analisi delle politiche pubbliche presso l’Università di Cagliari) nel suo nuovo saggio «Partiti di carta», edito da Carocci (Roma, 2018). Il volume analizza le trasformazioni dei partiti rivolgendo una particolare attenzione ai processi di “intraparty” e “democracy” e a fattori come la partecipazione e la mobilitazione, prendendo in considerazione sia l’immagine della leadership sia il rapporto fiduciario tra questa e il proprio elettorato. I “partiti di carta” – sono tali, scrive l’autore – perché destinati a scomparire o a diventare altro nel giro di una o di poche tornate elettorali, fra continue fusioni, scissioni e unioni. Se i partiti della Prima Repubblica erano fucina di idee e di mobilitazione con programmi chiari e con radici in tradizioni consolidate, al contrario, i partiti di carta sono poco più che un’unione burocratica, essi portano nomi bizzarri e volutamente non identificativi. Forze politiche che, in assenza di idee, sono soltanto la base temporanea per la candidatura di un leader. Non sono più i tempi di quando a De Gasperi subentrava Fanfani, o di quando dopo otto anni senza Togliatti, il PCI risorgeva con Berlinguer. Oggi ci si dimena nella palude dell’antipolitica.

Di Vincenzo Fiore