Che la prima vittima della guerra sia la verità, presa in ostaggio da tutti i belligeranti, è noto almeno dai tempi di Eschilo, drammaturgo ateniese del V secolo avanti Cristo, e del suo contemporaneo Tucidide, che descrisse come tale principio venne applicato nel conflitto del Peloponneso. Naturalmente l’assioma vale anche per il conflitto in corso in Europa, a prescindere dalle responsabilità delle parti in causa – l’aggressore e l’aggredito – che restano ben distinte. Ma le guerre, e anche l’attuale, svelano un’altra certezza, speculare alla prima: e cioè che la guerra è il trionfo dell’ipocrisia, che spesso cela una menzogna o la veste di rispettabilità. Anche in questo caso il campione assoluto della mistificazione è Vladimir Putin, l’aggressore, che fin dal primo giorno ha travestito la guerra in “Operazione speciale”, manco fossimo a Carnevale, e per essere più convincente ha minacciato la galera a chi osasse smascherare l’inganno. E’ lo stesso autocrate che ha sentito l’elementare dovere di porgere le sue scuse al governo israeliano per le scellerate dichiarazioni del suo ministro degli Esteri sulle “origini ebraiche di Hitler”, ma si è guardato bene dall’informare della marcia indietro l’opinione pubblica russa, che dunque resta convinta che “i più grandi antisemiti sono ebrei”. Detto questo, però, non è che l’ipocrisia sia praticata da una sola parte della barricata: anche alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato, come a Mosca, si gioca con disinvoltura con le parole. E così, per smentire che gli Usa siano direttamente coinvolti nella guerra in Ucraina, la portavoce del Consiglio di sicurezza americano smentisce duramente (“è da irresponsabili scrivere queste cose”) la rivelazione del New York Times secondo cui l’intelligence americana ha aiutato gli ucraini ad individuare e uccidere i generali russi colpiti in battaglia; ma poi si precisa che sono gli alti comandi locali che, combinando le proprie informazioni con quelle americane e di altri alleati scelgono i bersagli: e allora? Più in generale, non è affatto chiaro quale sia il livello (e la responsabilità) dell’impegno americano nella guerra, tanto che un autorevole osservatore non certamente ostile alla Casa Bianca come Charles Kupchan, già consigliere di Obama, ha detto candidamente al “Corriere della Sera”: “A questo punto penso che Biden dovrebbe avere un confronto con gli alleati e con gli ucraini per stabilire quali siano gli obiettivi della guerra. Perché ora non lo sappiamo”. Nel nostro piccolo, anche noi italiani partecipiamo alla fiera degli equivoci. Il solitamente prudente ministro Lorenzo Guerini ha costretto la Difesa ad arrampicarsi sugli specchi per chiarire il senso di una frase pronunciata in Parlamento sulla consegna a Kiev di “dispositivi” (cioè armi) “funzionali al solo scopo difensivo”, ma comunque “in grado di neutralizzare le postazioni dalle quali la Russia bombarda le città e la popolazione civile”. Per non dire dell’encomiabile proposito del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza, che ha deciso di accendere un faro sulle ospitate televisive non, si badi bene, per porre limiti alle scelte dei giornalisti, ma per “garantire pluralismo e libertà”, che evidentemente i colleghi responsabili dei programmi, da soli, non riuscirebbero ad assicurare. Ci sono poi due deputati in visita a Kiev, giustamente impressionati dalla vista di un Parlamento “trasformato in una trincea” ma inconsapevoli del fatto che da quell’assemblea sono stati appena espulsi una cinquantina di componenti, regolarmente eletti, accusati di aver svolto “attività finalizzate alla divisione e alla collusione” (filorussi?).
Per concludere con il massimo dell’ipocrisia, da molti esplicitamente praticata: che per avere la pace è necessario fare una guerra. E vincerla.
di Guido Bossa