Intervista a Franco Arminio: “Frenare l’emigrazione di massa dalle aree interne”

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Di Matteo Galasso

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un trend demografico che marca sempre più una fuga dalle aree interne e dal sud del Paese di giovani e meno giovani. Molti dei programmi che sono stati realizzati affinché questa curva potesse essere rallentata si sono rivelati a tal punto fallimentari che spesso non hanno fatto altro che accelerare ancora di più il processo di emigrazione.

Tra il 2014 e il 2020, gli abitanti della sola provincia di Avellino sono passati dai 430.000 a 405.000 circa: abbiamo a che fare con numeri drammatici, che testimoniano una via di sola andata. Tra coloro che si battono per provare a dare una risposta a chi vorrebbe restare o tornare, troviamo sicuramente Franco Arminio, noto poeta e “paesologo”, che abbiamo intervistato per ascoltare l’evoluzione delle sue considerazioni sulla rivitalizzazione delle aree interne e sul futuro dei piccoli borghi del nostro Paese.

Molti di noi nati nelle aree più depresse del Paese negli ultimi vent’anni crescono già pensando che un giorno dovranno allontanarsi dal proprio comune di residenza: secondo Franco Arminio per quale motivo, concretamente, dovremmo oggi ancora restare in luoghi che ci spingono – se vogliamo crescere  e raggiungere una reale autonomia – ad andare via?

Non possiamo, in molti casi, limitare il dibattito al semplice andare o restare: un giovane può anche lasciare per un periodo la propria terra per studiare e formarsi anche lavorando fuori sede e –ad un certo punto – pensare di tornare. Non è necessario restare chiusi “a chiave” nello stesso luogo per tutto l’arco della propria vita. Giusto andare a conoscere altre realtà, magari tenendo in mente come orizzonte quello che se si apre una possibilità al pari di una che troviamo altrove, possiamo – a mio parere – tornare e vivere meglio nella nostra comunità: facendo questa scelta si può rendere migliore la propria vita e contribuire a migliorare anche la qualità di quella degli altri. Si regala così a un borgo una persona in più, un consumatore in più, un cervello in più. Chiaramente non posso delineare un modello ben preciso per impedire ai giovani delle aree interne di emigrare. Allo stesso tempo non demonizzo tutto ciò che c’è oltre la propria comunità: al contrario, credo che appunto presenti innumerevoli occasioni di crescita.

Spesso però abbiamo a che fare con giovani che vanno e non tornano. Quali sono le sue soluzioni rispetto a questo fenomeno e come limitare o almeno frenare questa tendenza in notevole crescita negli ultimi trent’anni?

Possiamo correlare questo triste dato a una questione esplicitamente politica. Al sud e in Irpinia abbiamo avuto delle politiche che più che costruire occasioni di sviluppo sociale ed economico a lungo termine si sono rivelate effimere e senza alcuna visione per le nuove generazioni. Ci sono ovviamente delle responsabilità: è davvero inaccettabile che in una provincia che ha comunque ricevuto e usufruito di una serie di finanziamenti importanti nel corso dei decenni (come quelli per la ricostruzione dopo il terremoto dell’80) non si siano riusciti ad innescare dei processi di sviluppo tali da garantire alle nuove generazioni di restare senza pensarci due volte.

Ma sarebbe sicuramente più facile convincere noi giovani a restare che a tornare, non crede?

Il ritorno non è sempre possibile. È chiaro che un giovane che erediterà l’azienda dei propri genitori può tornare per aiutarli in caso abbiano intenzione di passargli il testimone: in questo caso ci sarebbe una base da cui partire, ma questa costante varia da persona a persona e non possiamo in alcun modo elaborare constatazioni astratte secondo le quali il ritorno possa essere garantito a tutti. Sono, chiaramente del parere che in qualche caso il ritorno sia possibile e consiglio a tutti di dare uno sguardo al proprio territorio e alle opportunità che esso contiene. Se si parte dall’idea che nella propria comunità non vi siano opportunità le stesse non si presenteranno: abbiamo a che fare con una sorta di pregiudizio negativo. Il ritorno è difficile e non nascondo che ci sia molto da lavorare, ma –anche se non sembra – la percezione gioca un ruolo fondamentale: una constatazione priva di pregiudizi ci permette di avere uno sguardo complessivo sulla realtà, al contrario di chi ritiene di poter decidere ancora prima di aver visto.

Abbandonare una vita dignitosa e una posizione professionale che può garantirci in generale una certa tranquillità economica e un dignitoso riconoscimento sociale per un attaccamento alle proprie radici e un possibile ritorno, secondo Lei, è o sarà davvero realizzabile?

Non necessariamente il tentativo di tornare va bene. In alcune situazioni si potrebbe avere successo da un punto di vista lavorativo, ma poi essere costretti vivere in un ambiente sociale sgradevole dove regnano clientelismo e individualismo. Non è una storia facile, si dovrebbe avere una convinzione politica che ci spinge a combattere: oltre il lavoro, per vivere bene in un paese, è necessaria anche un’altra motivazione personale che ci garantisca la forza per restare.

Questa motivazione dovrebbe esserci però spiegata già durante il nostro percorso di formazione scolastica: spiegarci perché restare e costruire qui il nostro futuro.

La mia proposta per provare a invertire questo trend è che i sindaci delle aree interne potrebbero, quando i giovani emigranti tornano ad agosto nei propri paesi, organizzare qualche evento per riunirli, conoscere ciò che fanno e farli conoscere tra loro, facendo nascere l’idea che qualcuno possa tornare a determinate condizioni. Se non si sviluppa questo dialogo non ci sono speranze. Allo stesso tempo, anche se iniziative come questa non dovesse avere successo, almeno si sarà tentato di provare a motivare questa scelta, mostrando anche a chi è costretto ad andarsene che qualcuno si sia interessato a lui: è un gesto minimo che può rivelarsi efficace.

Nella poesia “Tornate”, in cui invita a tornare quelli che sono andati via, parla della possibilità di riaccendere la vita in luoghi dove tutto sta morendo: non crede che tornando ci sia il rischio che si spengano anche loro? I luoghi decentrati e lontani dai centri urbani strategici rischiano, oggi, di non offrire più alcuno stimolo sociale.

Bella domanda. La mia idea prevede una certa mobilità: si deve tornare e diffondere una cultura più stimolante, appresa nelle città: creare associazioni e organizzazioni all’avanguardia. Si può essere comunque sconfitti dal sistema delle realtà rurali, ma sempre meglio di tornare per rassegnarsi e lasciarsi assorbire da una cultura monotona e priva di stimoli: a quel punto meglio restare laddove qualche stimolo già c’è.

Il piccolo borgo viene spesso descritto come una realtà dove regnano individualismo e familismo amorale. Come crede si possa mai costituire una società che sia comunità e collettività e che sia fondata sulla fiducia e il rispetto nei confronti del prossimo? Questa risulta essere talvolta un’utopia se messa a confronto con l’attuale realtà dei fatti.

L’individualismo e il familismo sono anche nelle città, pur essendo, chiaramente più evidenti nel piccolo borgo. Ci vuole la forza di condurre una battaglia fondata su motivazioni in cui si crede.

In che modo potrebbe essere impiegato un giovane laureato in un luogo dove neppure esistono aziende o posti di lavoro che riguardino la sua professione?

Se un determinato ambito lavorativo non è presente attraverso aziende o uffici sul territorio, è chiaramente utopistico pensare che un giovane laureato possa tornare. Il ritorno non è adatto a tutti: non si possono spesso neanche ricreare queste condizioni. Sarebbe velleitario, per esempio, che molti servizi industriali aprano per la prima volta in luoghi comunque depressi. Possiamo basarci molto su attività già esistenti come quella dell’agricoltura.

Negli ultimi anni, anche grazie al suo lavoro, i borghi possono presentarsi come alternativa al turismo di massa: questa sarebbe l’unica opportunità che consentirebbe alle saracinesche di molte attività di rialzarsi e all’economia di tornare a circolare e farebbe leva sulle potenzialità reali di cui già dispone un piccolo centro abitato: l’aria pulita, la tradizione culinaria, il paesaggio e i beni storici-artistici, valori che però possiedono gran parte dei comuni delle aree interne italiani. Ma una cosa è tornare per pochi giorni o settimane, un’altra è investire tutta la propria vita lontano dai grandi centri e dai servizi essenziali di cui nessuno oggi può fare a meno…

Credo che possa certamente contribuire a far girare l’economia, ma non basta: è necessario riattivare più attività e servizi per far girare l’economia. I servizi essenziali non sono più un problema reale: è raro che un giovane debba usufruire di un ospedale. Nel caso debba farlo, però, la strada c’è e non si arriva con il cavallo. Sì, si registra una carenza di servizi e infrastrutture, ma non è questo il motivo per cui emigrare. Le motivazioni più spesso si trovano in mancanza di lavoro e di eros: in un piccolo paese si è a contatto con la morte, vedendo anziani e case chiuse, pertanto, si deve essere attrezzati psicologicamente, mentre in città è più garantita la fuga e la distrazione. Dipende anche dalle caratteristiche psicologiche: c’è chi non ce la fa ma anche chi preferisce questo stile di vita.