La brutta resilienza della politica

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In questa nervosa vigilia dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, e mentre non è ancora iniziato in Parlamento l’esame del bilancio dello Stato, il secondo in epoca di pandemia, la politica italiana sta affrontando l’emergenza nazionale – che è anche economica e sociale – offrendo una interpretazione tutta particolare del concetto di “resilienza”, che da un po’ di tempo va molto di moda ma che indica realtà diverse, non tutte encomiabili e positive. In psicologia, resilienza indica la capacità di un soggetto di far fronte con successo ad eventi traumatici ed imprevisti; in economia la competenza necessaria per superare stati di crisi partendo dal parametro più basso raggiunto. In politica, nella politica italiana, in queste settimane “resilienza” suggerisce il modo un po’ truffaldino di affrontare l’emergenza nazionale facendo finta che essa sia superata e che quindi possano essere ripristinate le buone vecchie pratiche di un tempo. In passato, in quella che convenzionalmente si definisce “prima repubblica”, la battaglia per l’elezione del Capo dello Stato si svolgeva per lo più sotto traccia, fra le correnti democristiane (del partito, cioè, che avrebbe designato il candidato all’elezione), mentre tutti gli altri, maggioranza e opposizione, cercavano di sfruttare l’occasione per entrare in un gioco più grande delle loro dimensioni o delle ambizioni realisticamente coltivate. Successe così che dei conflitti fra correnti dc abbiano fatto via via le spese leader del calibro di Fanfani, Moro e Andreotti; e che partiti come il Pci o il Movimento sociale, esclusi dai governi, siano invece entrati (separatamente ma in modo a volte determinante) nella lotteria del Quirinale. Il conflitto e la successiva ricomposizione avvenivano insomma prima delle votazioni decisive, e ciò metteva l’eletto al riparo della contesa che pure aveva caratterizzato la vigilia. Una procedura un po’ bizantina, che però ha selezionato ottimi Presidenti, quasi sempre perfetti interpreti del ruolo di massima garanzia e insieme di impulso istituzionale che la Costituzione affida al Presidente della Repubblica.

In queste settimane, invece, sta accadendo che la disputa per il Colle investa direttamente la suprema carica istituzionale e quella del Governo, non meno centrale nell’ordinamento e tanto più in questa fase critica. I tentativi obliqui ed espliciti da parte di molti, ma prevalentemente di esponenti del Pd, di estorcere da Mattarella una disponibilità ad una rielezione (oltre tutto “a tempo”) si sono susseguiti a volte in modo sguaiato, fino a determinare una secca e infastidita puntualizzazione di Sergio Mattarella. Non meno sorprendenti sono state le ripetute pressioni rivolte a Mario Draghi per convincerlo ad annunciare pubblicamente la volontà di restare a palazzo Chigi rinunciando ad altre legittime ambizioni; senza curarsi, i protagonisti di tali pressioni, di indicare un altro candidato al posto di quello che a tutt’oggi sembra comunque il più autorevole e quasi predestinato alla carica. Appare di tutta evidenza come dietro queste manovre ci sia semplicemente la desolante incapacità dei partiti di fare i conti con la propria crisi ormai permanente; così come è palpabile la consapevolezza della difficoltà comune a molti, ma soprattutto ai capi di Pd e Cinque Stelle, di governare le rispettive truppe parlamentari al momento delle votazioni determinanti, dopo la metà di gennaio. Difficoltà dovuta probabilmente all’offuscamento della propria identità politica, la cui riaffermazione è invece il fondamento di una buona ed efficace resilienza.

di Guido Bossa