La Costituzione e le garanzie della libertà

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L’intervento ad Avellino del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi per sostenere il Sì al referendum sulla legge di riforma costituzionale che reca la sua firma si presta a diverse considerazioni. La prima è il tono pacato e discorsivo del discorso, assai diverso dalle consuete intemperanze renziane. Ma, se è vero che la forma è sostanza, ciò delinea una precisa scelta d’indirizzo mediatico, depoliticizzata, tranquillizzante e persino sotto alcuni aspetti minimalista; e quindi insidiosa perché politicamente fuorviante. La Ministra ha infatti affermato che «non si vota sulla legge elettorale. Non è un voto sul Governo o su un partito. Non si vota per accrescere i poteri dell’Esecutivo e dunque non è vero che questa riforma rappresenta una minaccia per la democrazia. Non è vero che vengono toccati i principi fondamentali della Carta perché basta leggere il testo della legge per capire che essa non interviene sulla Parte Prima, quella che enuclea i principi fondamentali, ma sulla Seconda e, dunque, sull’organizzazione dello Stato». Ma allora, vien da chiedersi, perché “tanto rumor per nulla”, se si tratta di poco più di un regolamento condominiale? E se è così, come mai dalla riforma dipenderebbero i destini epocali del Mezzogiorno e dell’intero Paese, e perché la sua sconfitta aprirebbe uno scenario apocalittico, come i suoi propugnatori sostengono? Paradossalmente, il punto nodale della questione è stato colto proprio dal prof. Sterpa, la cui relazione “tecnica” ha introdotto quella “politica” della Boschi. Secondo il professore, infatti, «la riforma non mina la democrazia ed anzi rafforza il rapporto con gli elettori, trasferendo a livello nazionale la logica delle elezioni locali, comunali e regionali, grazie all’introduzione di un rapporto fiduciario tra il governo ed una sola camera». Bene, questo significa cogliere il nodo del problema, quello cioè del «rapporto fiduciario tra il governo ed una sola camera». Il che, tradotto in linguaggio corrente, significa che il governo dispone di una tale maggioranza parlamentare, eletta con un forte premio maggioritario e con liste bloccate imposte dall’alto, da poter imporre senza alcun controllo la propria volontà al parlamento e al Paese. Di più: con la riforma, controllando il parlamento, il governo si assicura il controllo di istituzioni-chiave quali la Corte costituzionale e lo stesso presidente della repubblica. E tutto questo non porrebbe a rischio la sostanza delle libertà democratiche, riducendo a pure enunciazioni formali (assai più di quello che non sia già oggi) le garanzie assicurate dalla prima parte della Costituzione?Ma l’antidemocraticità del progetto di riforma costituzionale sta già “a monte”, prima ancora dei suoi stessi enunciati. Infatti, in tutto il procedimento emerge con forza un grave abuso di potere costituente. La Costituzione prevede la possibilità di modificare singoli articoli, e a questa procedura si è già più volte fatto ricorso nel passato con singole leggi costituzionali. Ma quando si tratta di una modifica sostanziale, quantitativa e qualitativa, di intere parti della Costituzione, tale potere può spettare esclusivamente a un’Assemblea costituente, o anche a un parlamento eletto dal popolo con tale funzione e mandato. Tanto meno la revisione costituzionale può risultare dall’iniziativa, come in questo caso, di un governo, che l’ha imposta a colpi di voti di fiducia, e con maggioranze ristrettissime, al parlamento. E qui veniamo a un altro punto, politicamente e istituzionalmente delicatissimo. La Costituzione del 1948, sicuramente imperfetta sotto molti aspetti (quella della “Costituzione più bella del mondo”è ovviamente solo una vuota formula retorica), è comunque un documento di altissimo valore etico-politico, le cui formule giuridiche esprimono in garanzie e istituti quel particolare momento storico della vita italiana, provvedendo alla creazione di un ordinato sistema di pubblici poteri e di garanzie alle libertà politiche. Il compito era ben difficile: scrivere una costituzione che si rivelasse vitale alla prova dei fatti, rappresentando una sintesi equi librata tra l’esistente e l’innovazione, tra strutture già operanti e ordinamenti nuovi. La forza della Costituzio ne si radicò proprio in questa sua “storicità”; nella sua aderenza cioè alle strutture ideali e antropologiche del paese e nella sua capacità di ricomporre, dopo una guerra perduta e una rivoluzione politica, col passaggio dal fascismo alla democrazia e dalla monarchia alla repubblica, un sistema di poteri e di garanzie. I lavori dell’Assemblea Costituente ebbero dunque soprattutto il merito storico di pacificare il paese e di esprimere in una sintesi politico-giuridica equilibrata e coerente gli ideali liberali, cattolici e marxisti. Il cosiddetto “arco costituzionale” espresse fino al 1994 questa vastissima realtà di forze politiche spesso vivacemente contrapposte e anzi alternative, ma che si richiamavano tutte alla Costituzione e ai suoi valori. La Costituzione che ora si vuole imporre agli italiani, prima a colpi di fiducia e ora con un referendum-monstre, che spazia dall’abolizione del Titolo V all’abolizione del Cnel e alla creazione di un aborto di nuovo Senato non elettivo, non rappresenta né può rappresentare quei valori unitari, nazionali e popolari, comuni e condivisi, che sono propri di una Costituzione frutto della storia e della volontà popolare. Proprio per questo, e già nelle sue stesse origini e motivazioni, prima ancora che nei suoi contenuti, essa si presenta con preoccupanti e nefasti connotati antidemocratici.
edito dal Quotidiano del Sud