di Monia Gaita
Ci ricordiamo adesso che dobbiamo avere una cura assidua dell’altro ancor prima che di noi stessi.
Che sostare nella solitudine diventa necessario come mangiare e bere. Che ognuno è una fragile betulla e dimora in paesi precari, pervasi dal fremito della paura.
Da uno dei tanti fori della globalizzazione è sbucato un virus che ci ha costretti all’isolamento, a sospettare del prossimo, pure del vicino di casa. Bisogna temere la vicinanza perché la vicinanza è un morbo che tappezza l’aria. Perché la vicinanza può essere contagiosa.
Occorre ritrarcene, lasciar cadere al suolo baci e strette di mano con un tonfo.
Bisogna deviare i raggi ultravioletti dello stare insieme per evitare eritemi e scottature.
Come quando andiamo al mare, spalmarci il corpo con una crema a protezione totale: la distanza.
Da un po’ di tempo abbiamo chiuso la porta alle abitudini.
Ma non smettiamo di cercare un giaciglio sotto le radici divelte della convivenza.
Ci sentiamo tutti in quarantena, tutti in zona rossa, tutti a rischio di contagio.
Ci sentiamo tutti untori e tutti unti, tutti sabotatori e tutti sabotati, tutti contaminatori e tutti contaminati.
Vorremmo recuperare in fretta la vita di prima, ma non dipende dalla nostra volontà.
Stiamo come rannicchiati in una gabbia aspettando che qualcuno spezzi le sbarre e ci restituisca la libertà.
Ora l’umanità è un libro senza caratteri, senza titolo e senza frontespizio. Occorrerà riscriverla da capo.
Racconteremo, quando questa brutta vicenda sarà finita, quanto è bello abbracciare gli amici, quanto è bello affollare le piazze, amalgamarsi al caos del traffico, fare la fila al supermercato e dal dottore, smarrirsi nell’indistinto della promiscuità.
Racconteremo quanto è bello andare a scuola, ascoltare la maestra mentre spiega, all’ultima ora bramare esausti la campanella che suona. Racconteremo quanto è bello entrare nei ristoranti, negli stadi, nei pub, nelle palestre; prendere il treno, il pullman e la metropolitana. Racconteremo quanto è bello fidarci l’uno dell’altro, connetterci al respiro del mondo, sventolare il fazzoletto di un cammino condiviso. Racconteremo che la solidarietà è il solo ombrello comune capace di salvarci e di difenderci.
Che l’ombrello degli egoismi e delle meschinità costituisce un riparo fittizio e frantumabile.
Che la salute e il benessere non sono valori individuali, ma appartengono a tutti.
Riscriveremo al contrario il vuoto di questi giorni, lo culleremo con tenerezza, gli asciugheremo le lacrime.
Fracasseremo i piatti allo spavento, li scaglieremo con forza contro i muri. E capiremo che la normalità è un vento periodico e che non è scontata.
E capiremo che se nel perimetro del nostro abitato c’è un sole smagliante e fuori piove, dobbiamo volgere il sole laddove il cielo è grigio.
Perché il sole è di tutti e non il mio soltanto.