La guerra fredda, Biondi, Bassolino e il Partito comunista

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1982

Di Paolo Saggese

La morte di Michail Gorbaciov è arrivata inaspettata il 30 agosto, non perché non sia fisiologico che oltre i novant’anni è vicina la fine dell’esistenza di un uomo, ma perché il grande statista rappresenta già un mito vivente e in quanto tale non può morire. Per noi in Occidente Gorbaciov ha rappresentato tutto questo, con il suo comunismo umano, con la sua fede nel bene dell’uomo, con la sua convinzione, che fosse necessaria e inevitabile la fine della “guerra fredda”, che fosse necessaria e inevitabile una svolta per il pianeta, libero finalmente dalla paura atomica, dagli schieramenti contrapposti, dalle cortine di ferro, dalla divisione tra “buo – ni” e “cattivi”. In Russia al contrario Gorbaciov rappresenta colui che ha posto fine all’Impero sovietico, quasi un traditore, che avrebbe dovuto essere ucciso nel colpo di stato ordito dalla “banda degli otto” (il 19 agosto del 1991, in Crimea, il politico e la sua famiglia furono presi in ostaggio e salvati da Eltsin e dalla popolazione insorta contro i golpisti). Le sue parole, “glasnost” e “perestrojka”, sono divenute valori universali di una generazione. Oggi, pensando alla Russia attuale, non possiamo che cogliere la distanza abissale. La morte di Gorbaciov rappresenta la metafora del fallimento di un progetto di distensione mondiale, che è ancora lontano da venire. La sua grandezza e le sue azioni ebbero un impatto straordinario in tutto il mondo, anzi lo cambiarono, portarono all’unificazione della Germania, al cambiamento dei rapporti tra l’Europa dell’Est e la Nato, a un nuovo ordine o disordine mondiale, che abbraccia tutti i fatti accaduti dalla “Guerra del golfo” fi – no all’attuale conflitto in Ucraina. Portò alla fine, in Italia, del glorioso Partito comunista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer (3 febbraio 1991), alla precedente “svolta della Bolognina” (12 novembre 1989), alla nascita del Pds, dei DS, del PD. Questi eventi ebbero un effetto domino anche in Irpinia, e ispirarono il libro, più volte citato su queste colonne ed elogiato, di Federico Biondi, “Andata e ritorno. Viaggio nel PCI di un militante di provincia”, Voll. II, Elio Sellino Editore, 2000. Si tratta di un’opera tra le più importanti mai dedicate alla storia irpina, e che ogni studioso del Novecento dovrà tenere nelle giuste considerazioni per il prezioso contributo alla memoria storica di più di mezzo secolo. Un lavoro analogo andrebbe compiuto sulla DC irpina, ma si tratta di impresa complessa e difficile. Con la convocazione del XIX Congresso le sezioni si divisero tra la mozione del “Sì” alla “svolta”, quella del “No”, contraria al cambiamento, quella del “Nì”, capeggiata da Antonio Bassolino. E la Federazione irpina fu l’unica in Italia a schierarsi per il “No”, che non ottenne la maggioranza assoluta solo perché le mancò “l’apporto di una piccola frazione guidata da Luigi Anzalone, che votò per la mozione presentata da Bassolino, membro della Segreteria nazionale” (II, p. 1052). Il giudizio di Biondi sulla politica proposta da Michele D’Ambrosio e da coloro che sostenevano la mozione del “No” è dura e puntuale: “Al posto della nuova prospettiva (il cambiamento) che è l’unica in grado di rimettere in corsa il partito, il ritorno ad una formula ormai logora, che però, grazie ad una maggioranza, sia pure fluttuante, di cui riuscirà a disporre il gruppo dirigente, verrà adoperata per ridimensionare ulteriormente la rappresentanza negli organismi dirigenti del fronte del sì. Questo sarà possibile anche perché tra gli stessi sostenitori della svolta, alcuni dei quali, ai livelli inferiori, partecipavano delle posizioni di potere del gruppo dirigente, c’era chi accettava il corso nuovo con forti riserve mentali o con assai scarsa coerenza di comportamento. Così si spiega come, pur dopo la vittoria su scala nazionale della mozione di Occhetto in tutto il partito e la nascita del Pds, la corrente del no, con una spregiudicata operazione di trasformismo, continuerà a mantenere il governo della Federazione” (II, pp. 1052-1053). In tal modo, il Partito in Irpinia fu vittima all’interno di continue faide, che lo avrebbero ulteriormente indebolito, e all’esterno nell’eterno scontro demitiani-antidemitiani, che bloccava la provincia in un limbo, senza consentirle di guardare al futuro. In sostanza, per il Partito irpino Gorbaciov non era esistito, non era caduto il “Muro di Berlino”, era tutto rimasto immutato, con il Pci e la Dc l’uno contro l’altro armati, come ai tempi di Peppone e don Camillo. E di questa cecità ne ha pagato le conseguenze l’intera Irpinia. Ancora Biondi: “E questo è anche il paradosso che spiega perché, dopo 15 anni, la Federazione di Avellino, in tutto il Paese, sarà forse l’unica – e credo senz’altro che lo sia, mentre non dispongo di notizie che provino il contrario – dove ad un accordo con i Popolari per la formazione di uno schieramento dell’Ulivo alle amministrative del ’95, si giungerà soltanto in extremis, qualche giorno, o addirittura qualche ora prima dei termini per la presentazione delle liste” (p. 1053). Oggi, a distanza di tanti anni, si può tranquillamente affermare che faide interne, tradimenti notturni, sgambetti, si verificarono in molte sezioni della provincia, dove una parte del partito preferiva di volta in volta votare anche contro i propri candidati piuttosto che far vincere la fazione opposta. Ormai la degenerazione dei Partiti era completamente compiuta! Ritornando a Gorbaciov, per Biondi rappresenta colui che ha portato a compimento il suo percorso di “andata” e “ri – torno”, da posizioni liberalsocialiste della giovinezza (Partito d’Azione) a posizione comuniste (PCI) al ritorno alla liberaldemocrazia con il Pds. Ma era convinto, Biondi, che un cambiamento vero sarebbe stato possibile solo se la classe dirigente del glorioso e vecchio Pci fosse stata in grado di accettare completamente l’idea, che il cambiamento fosse necessario, non semplicemente per una necessità storica, ma anche o soprattutto per dare risposta ai nuovi problemi della società e del mondo. Nel 1991 Biondi si chiedeva e rifletteva: “Ma non si tratta solo dell’avvenire del Pds; si tratta anche dell’avvenire del Paese, il quale aspetta ancora di sapere se un’alternativa alla Dc è veramente possibile, non perché giudichi che su questo partito si debba scaricare la responsabilità di tutti i guai dell’Italia, ma perché vede che il loro incessante aggravarsi è la conseguenza della mancanza di una reale alternanza in Italia” (“L’Irpinia” del 25 maggio 1991). Ma il partito in Irpinia ancora si dibatteva in queste discussioni, e una parte di esso e i suoi eredi hanno attuato ancora la politica dello scontro e di una intransigenza sterile, che ha aperto la strada alla destra e alla peggiore politica in tante estenuanti campagne elettorali. Ma questa è ben altra storia.