La Lega a scuola di inglese

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Nella sua prima apparizione governativa, a metà degli anni novanta del secolo scorso, la Lega Nord che allora aveva per motto “prima la Padania”, spedì una commissione in Australia per studiare il federalismo. Il ministro competente era un signore che amava presentarsi in Parlamento annodandosi al collo un laccio da cow boy al posto della cravatta. Naturalmente non se ne fece nulla; anzi la Lega pagò le sue stravaganze con qualche anno di purgatorio all’opposizione. Poi, cambiando le politiche cambiò più volte faccia; ma anche ora che guida il governo per interposto presidente del Consiglio non ha rinunciato a copiare dagli altri; e così la nuova parola d’ordine di Matteo Salvini – prima gli italiani – altro non è che un adattamento dell’”America first” di Donald Trump. Con qualche sbavatura, però, perché è evidente che se viene prima l’America tutti gli altri, quindi anche l’Italia verranno un po’dopo, mentre è impensabile che gli italiani possano venir prima degli statunitensi.

Dettagli insignificanti, come ha potuto constatare il giornalista del “Corriere della Sera” che l’altro giorno è andato a intervistare il ministro dell’Interno e lo ha trovato intento alla lettura delle ricette economiche del tycoon diventato presidente, e di quelle del suo omologo giapponese Shinzo Abe (o Abe Shinzo, come sembra più corretto dire). Se ha funzionato lì, deve funzionare anche da noi, ha sentenziato Salvini, appena reduce da una tonificante missione a Washington, certo di aver convinto l’uomo della Casa Bianca che l’Italia da lui stesso personificata è il punto di riferimento degli Usa su questa sponda dell’Atlantico, “l’alternativa allo strapotere franco-tedesco”. Che la stretta di mano nello studio ovale non ci sia neppure stata è un particolare trascurabile: l’importante è che l’ospite italiano abbia recepito correttamente il messaggio trasmesso dagli amici americani; i quali, è bene ricordare, non potendo più utilizzare il grimaldello britannico per scardinare il portone della fortezza europea, sono alla ricerca di un’altra testa di ponte nell’Unione, e sembrano averla trovata nel volenteroso apprendista padano.

In questa ottica, trovano una spiegazione alcuni comportamenti apparentemente schizofrenici del governo italiano inteso ai suoi massimi livelli. Abbiamo infatti il presidente del Consiglio che si affanna per iscritto e di persona, a Bruxelles, cercando di convincere i partner dell’Unione circa l’intenzione dell’Italia di rispettare le regole di bilancio concordate, onde evitare una procedura d’infrazione che ci legherebbe le mani per alcuni anni. Conte, come ogni bravo negoziatore, alterna lusinghe e minacce, perché certamente ha ancora buone carte da giocare; ma intanto deve fare anticamera e si vede escluso dai ristretti conciliaboli fra capi di governo ai quali una volta l’italiano era benvenuto (l’ultimo fu Gentiloni). E tutto si può dire tranne che la diffidenza verso il nostro Paese sia ingiustificata; infatti i messaggi che da Roma arrivano nella capitale europea sono di tenore ben diverso da quelli che il mediatore veicola ai suoi colleghi: il vice premier e ministro dell’Interno non lesina critiche sprezzanti ai “burocrati” europei accusati di non consentirgli di applicare a Roma la ricetta trumpiana vincente a Washington, e taglia corto: o si fa come dico io o me ne vado.

A questo punto è lecito interrogarsi sul reale contenuto della lezione che Salvini ha riportato da Washington. Al netto delle competenze linguistiche dell’interlocutore, ci si può chiedere, per esempio, se il presidente Usa sia veramente interessato ad un taglio delle tasse a favore dei contribuenti italiani, o se piuttosto guardi con favore ad una azione dirompente condotta con qualsiasi mezzo (anche l’ennesima manovra economica in deficit) per colpire al cuore l’Unione europea già di per sé indebolita nel suo nocciolo duro (l’asse franco-tedesco dal quale l’Italia si è chiamata fuori) e per così dire in un guado difficile dopo le elezioni parlamentari e con tutti i vertici istituzionali e monetari in scadenza. Nella sua brutale sincerità, Donald Trump non fa mistero di voler disarticolare l’Ue. Il suo disegno è chiaro: quello del governo italiano, o di alcune sue componenti, lo è molto meno

 di Guido Bossa