La mafia non è invincibile

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Ci sono giornate che ti restano dentro, ricordi che non si possono cancellare ed è così anche per la morte di Giovanni Falcone. Chi c’era, quel 23 maggio di trent’anni fa, si ricorda esattamente cosa sta facendo in quel momento e come ha appreso la notizia. A Capaci, lungo l’autostrada che collega l’aeroporto a Palermo, Cosa Nostra fa saltare in aria il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Una carica di cinquecento chili di esplosivo ingoia le auto e le persone che passano in quel momento lungo l’autostrada che corre dall’aeroporto fino alla città. A Roma la politica è paralizzata, dopo quindici scrutini e quindici fumate nere, deputati e senatori non riescono ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. L’accordo tra i partiti per individuare il successore di Cossiga è lontano. La situazione immediatamente precipita: serve un segnale forte da parte del mondo politico che, solo due giorni dopo, elegge il democristiano Scalfaro alla Presidenza della Repubblica. Nei giorni precedenti era tramontata la candidatura del segretario della DC Arnaldo Forlani e caduta l’ipotesi di Giulio Andreotti. A sparigliare i giochi era già stata la mafia. Il primo grave attentato del funesto ’92 era già avvenuto il 12 marzo, quando in un agguato era stato assassinato l’ex sindaco di Palermo, l’andreottiano Salvo Lima. E’ la morte di Falcone però, che scuote non solo l’albero della politica, ma quello della coscienza del Paese. L’Italia vive una delle fasi più difficili e drammatiche della sua storia repubblicana. I parlamentari sono sotto assedio, a causa delle inchieste della magistratura che assesta ogni giorno colpi micidiali alla credibilità del sistema politico, sempre più forte è la rabbia dell’opinione pubblica. In questo quadro arriva l’attentato a Falcone. Da anni è quasi un sepolto vivo, Attilio Bolzoni, un cronista che si occupa prevalentemente di criminalità mafiosa, ha scritto che “è un magistrato mal tollerato dalla magistratura, ha una sapienza giuridica che non piace ai tecnici del diritto, è slegato dai partiti e dalle fazioni della corporazione. È fuori posto. Falcone. In tribunale. A Palermo. A Roma. È un italiano fuori posto in Italia”. La sua sapienza giuridica e la sua capacità investigativa permettono di aprire finalmente una finestra di verità sulle stragi di mafia. Il capolavoro di Falcone è il maxiprocesso che si apre a Palermo il 10 febbraio del 1986 e si chiude il 16 dicembre 1987 con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. È la prima sconfitta della mafia da quando esiste la mafia. Oggi a distanza di trent’anni dalla morte di Falcone, la mafia dei corleonesi è stata annientata, c’è però un’altra mafia che non spara quasi più e comanda diversamente, senza armi, usa quelle della finanza e degli affari. Le figure di Falcone e Borsellino sono giustamente esaltate, grazie alla loro azione tutti gli uomini della Cupola sono stati condannati e non era mai accaduto prima, ma tanti misteri restano ancora oscuri come ci ha ricordato il Capo dello Stato Mattarella convinto che non è ammissibile “nessuna zona grigia, nessuna omertà né tacita connivenza: o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi. Non vi sono alternative. La mafia teme, certamente, le sentenze dei tribunali ma vede come un grave pericolo per la sua stessa esistenza, la condanna da parte degli uomini liberi e coraggiosi. La mafia, diceva Antonino Caponnetto teme la scuola più della Giustizia perché l’istruzione toglie l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa e con queste premesse non è invincibile anzi può essere definitivamente sconfitta, realizzando così la lucida profezia di Falcone”.

di Andrea Covotta