La richiesta di Finlandia e Svezia di adesione alla Nato e la contrarietà subito manifestata dalla Turchia, complica ulteriormente il puzzle della trattativa, non ancora avviata, per arrivare se non ad una tregua almeno ad un limitato cessate il fuoco che consentirebbe per esempio di sgomberare l’acciaieria di Mariupol dai combattenti ucraini che vi sono asserragliati e di sdoganare le tonnellate di cereali stoccate nel porto di Odessa che altrimenti marcirebbero nei magazzini innescando una drammatica penuria alimentare nel Nord Africa e in Medio oriente. Negli ultimi giorni la crisi internazionale avviata con l’invasione russa si è ulteriormente allargata coinvolgendo nuovi protagonisti in un’alternanza di pessimismo e speranza, con il rischio che il pallino sfugga di mano a chi potrebbe imprimere una svolta positiva ad un conflitto che sta insanguinando l’Europa ormai da due mesi e mezzo. Nella sua visita a Washington e negli incontri alla Casa Bianca e al Congresso degli Stati Uniti, Mario Draghi ha evidenziato il nocciolo della questione e al tempo stesso ha indicato la chiave di volta di una possibile soluzione. Ha detto che è giunto il momento di un confronto diretto fra Biden e Putin, e che dovrebbe essere il presidente americano a fare il primo passo chiamando il Cremlino. Naturalmente il nostro presidente del Consiglio non si illude sulle virtù miracolistiche di una telefonata (che allunga la vita solo nella fiction pubblicitaria); ma sa anche che realisticamente un gesto della Casa Bianca potrebbe contribuire a soddisfare l’ego ipertrofico di Putin, indurlo ad uscire dall’angolo in cui si è cacciato e intanto sbloccare alcuni nodi particolarmente intricati come quello del grano ucraino. Si poteva così prefigurare l’inizio di una svolta nella crisi che tuttora appare senza sbocco. Nel faccia a faccia alla Casa Bianca, il presidente americano si è mostrato possibilista (“Ci penso”, ha risposto); poi Draghi nella conferenza stampa a Washington e di ritorno a Roma ha insistito sul tema sollecitando gli Stati Uniti a “cercare un canale diretto di dialogo” con Mosca con l’obiettivo di far sedere ad uno stesso tavolo Putin e Zelensky; ma le mosse successive sullo scacchiere internazionale dimostrano quanto sia ancora complicata la partita. Dalla parte ucraina si è levato un fuoco di sbarramento imponente: il presidente ha praticamente sbarrato la porta al dialogo dichiarando (al programma di Bruno Vespa) che prima i russi si devono ritirare dai territori occupati e impegnarsi al risarcimento dei danni; e la vicepremier di Kiev che tratta per lo scambio dei prigionieri ha detto che “tutti i russi sono responsabili di questa guerra, nessuno escluso”. Contemporaneamente è stata formalizzata la richiesta finlandese di ingresso nella Nato, con dichiarazioni congiunte del presidente e del primo ministro di Helsinki. La Svezia seguirà a ruota, e naturalmente Mosca ha risposto duramente minacciando pesanti ritorsioni. Ora, si potrà ironizzare sul fallimento della strategia putiniana, che aveva l’obiettivo di allontanare la Nato dai propri confini e ora se la vede alle porte di casa; ma in ogni caso è lecito dubitare sulla tempestività di una mossa che infrangendo una consolidata tradizione di neutralità introduce ulteriori elementi di squilibrio in un quadrante europeo prossimo all’esplosione. Se la contrarietà di Erdogan ai nuovi ingressi nell’Alleanza – dovuta a motivazioni che più nazionaliste non potrebbero essere, in quanto i due Stati ospiterebbero “terroristi curdi” – si trasformasse in un veto vero e proprio, la partita si potrebbe riaprire di nuovo, con un atro giocatore – il governo di Ankara – schierato sul fronte della trattativa.
di Guido Bossa