Corriere dell'Irpinia

La radice delle cose, l’universo d’arte di Prisco De Vivo

di Monia Gaita

“La radice delle cose” è l’ultima fatica letteraria di Prisco De vivo, uscita per le Edizioni Mimesis, a cura di Rosaria Ragni Licinio, con la prefazione di Alberto Dambruoso. È una raccolta di interviste che l’autore ha rilasciato dal 1995 al 2020, corredata da un prezioso apparato di poesie e foto.

Perché Prisco De Vivo è un esponente autorevole e fecondo di un continente artistico che vira verso una fulvida gamma di sorprendenti manifestazioni: dalla pittura alla scultura, dalla poesia al design; percorsi che si enucleano e si snodano su binari fratelli nel pullulare di uno slancio creativo cui è delegata la tessitura delle pulsioni immediate dell’intuizione, del contesto quotidiano-storico-civile e della triplice coincidenza studio/volontà/sperimentazione.

“Succede così che sfogliando il libro  ̶  dice Alberto Dambruoso  ̶  si passi da un’intervista ad una poesia, da un quadro ad una fotografia con grande leggerezza ma, allo stesso tempo, con una grande profondità di pensiero, quella di un artista impegnato che ha fatto della sua vita una forma d’arte totale”.

<<Quando ho scoperto la mia “acqua di fuoco” ̶  spiega Prisco De Vivo  ̶  avevo dodici anni. Ricordo che avevo scommesso con me stesso di copiare “L’incoronazione di Napoleone” di Jacques Louis David, un’operazione immane per l’infinità di figure che apparivano sulla scena, un progetto grafico che non ho ripreso più, se non a spezzoni e in modo frammentato. Poi, nel tempo, la mia fame e l’inarrestabile sete di disegnare non ha conosciuto barriere, ero sempre intento a raffigurare qualcosa o qualcuno. Alla cintola mi attaccavo le matite, le sanguigne ed i carboncini come fionde per catturare le ispirazioni, anziché gli uccelli>>.

Nelle figurazioni di Prisco De Vivo ricorre l’accanimento di un motivo espressionista cupo e allucinato, l’urlo, che tanto ricorda l’inquietudine brulicante di Edvard Munch cui lo lega l’afflato di un’analoga intesa psicologica e culturale:<<La bocca aperta come scuoiata,  ̶  chiarisce Prisco De Vivo  ̶  in crani quasi sempre calvi che accentuano la drammaticità della situazione. Un grido muto e senza suono, quello dell’anima, dei neonati o dei bambini: un grido che forse risale alla mia infanzia, ad un’opera “San Gennaro esce illeso dalla fornace” di Jusepe De Ribera, in un particolare della quale appare un bambino urlante che non ho potuto mai dimenticare>>. Agisce, poi, l’ineluttabile attrazione di Prisco De Vivo per i poeti e gli scrittori caduti in disgrazia.

“Questa mia volontà – dice – forse nasceva da un desiderio di redenzione, era come un vano tentativo di salvare queste personalità dalla caduta e da quel precipizio che costava loro l’eternità felice. Così cercavo di bloccare quei figli perduti della memoria per riportarli a Dio.”

C’è un piano sacrale, un recinto ascetico cui la dorsale artistica dell’autore protende e accondiscende. Come attinge alla straordinaria influenza di filosofi di lampante levatura: Heidegger, Cioran, Nietzsche, Schopenhauer. Tutto, nella trafila raffinata del rigoglio generativo, va fatto sussumere nel corpus mitico, soprannaturale e misterioso dell’infanzia e dell’adolescenza. “L’infanzia – ammette l’autore – racchiude il quadro completo della nostra esistenza, da lì si può estrarre tutto”.

Lo spazio profano in cui siamo ingabbiati, viene spinto fuori dai confini comuni, spodestato della propria finitudine, acquisito in un’adunanza di smalti, cenere, effetti chiaroscurali, tele, cartoni, acrilici, terrecotte, sfondi neri, provocazioni blu e ritratti fotografici nei quali si avverte l’autonoma dotazione di apicali germogli di originalità. Anche dalla poesia affiorano i sintomi di una personalità crespa e contorta che non chiede la restaurazione di una zona d’innocenza, rappresentando il triste resoconto di un’umanità in balìa della sventura che somiglia alla “mesta selva” dantesca dei suicidi: uno spettrale bosco di impiccati.

“Il sangue dei poeti – riferisce Prisco De Vivo – l’ho sempre visto grumoso e tannico più dell’inchiostro essiccato”. I cespugli dei versi gemono e raccolgono pietosamente la secca perentorietà di un divenire dilaniato dall’incapacità di vedersi diverso, bello e felice. Versi devoti alla denuncia e alla protesta, investiti in pieno dalla furia degli scassinatori che bruciano in un solo falò ogni residuo di speranza.

Allora perché sforzarsi a dire quando il palazzo della pronuncia poetica appare screditato e in deficit di soluzioni rispetto al salto nel vuoto della cronaca vissuta? Forse perché in Prisco De Vivo il deficit di una risposta esauriente non punta a risanare luoghi e persone nel tramite diligente e organizzato della parola, ma a darne testimonianza attraccando nell’insenatura di una presa di coscienza: la realtà dura che scombussola e soffoca senza preavviso.

Con gli abiti zuppi di quest’amara verità, l’arte, in un brigare insonne e febbrile, si fa menzione accorata dello smarrimento e dei contrasti del mondo. Non è arte della catastrofe, ma arte dello sdegno e del tormento interiore, a sottolineare le tappe nevralgiche di un racconto esistenziale che si dipana in garanzia di autenticità e concentrazione altissima di significati. L’arte non può disertare le urne della decifrazione, è chiamata a votare ciò che sente e vede attraverso gli strumenti di cui dispone.

L’arte di Prisco De Vivo non cestina la bellezza e la voglia di vivere, ma issa un monito contro l’indifferenza e il semaforo rosso della disattenzione. Prisco De Vivo ci esorta a spalancare gli occhi su ciò che ci circonda, a non agire solo quando siamo interpellati, ma ad essere attori del mondo sempre, anche in mezzo alle note stonate e alla vigenza del perduto.

Con l’arte non diventiamo ostaggi di forme di estinzione, nessuno scioglimento tardivo o anticipato del pensiero. Perché l’arte si propaga e si protegge da sé, è la trincea scavata dalla meraviglia, contiene le munizioni e i rifornimenti dei tanti assiomi combinati del linguaggio che attendono al glorioso ufficio di bucare il limite intrinseco della matita, dell’inchiostro e dei colori.

Come fa l’arte a bucare quel limite? Semplicemente adempiendo un compito, lasciando che la sua sorgente imperitura attecchisca nell’animo con tutte le vertigini dell’ascesa e della caduta. L’arte sa creare scenari inespugnabili che se non riescono a scansare il dolore, nella ricchezza delle soluzioni immaginifiche, guardano biancheggiare nel profondo, il richiamo vitale dell’infinito.

E nell’inevitabile abisso che separa intenzione e realizzazione, l’arte attiva una consapevolezza di valori universali e contribuisce ad infrangere le catene del genere umano.

Dunque, l’arte di Prisco De Vivo, non si fa mai sfiduciata, debole o corporativa, non porge sandali alati o bacchette magiche, ma ingloba in sé un progetto di secessione dalla banalità che è la vetta somma di quel viale conoscitivo, di scommessa e di scoperta, cui tutti siamo invitati a partecipare.

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