La ricerca: dall’Irpinia a Cambridge e negli Usa

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Maurizio Renna e Rachele Di Donato

Percorsi – La rubrica a cura di Monia Gaita

Maurizio Renna: Nato ad Avellino nel 1978 e originario di Prata P.U. Laureato in Biotecnologie Mediche a Napoli, ha conseguito il dottorato in Biochimica e Patologia dell’Azione dei Farmaci all’Università di Salerno. Professore di Biologia Applicata al Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università Federico II di Napoli, dal 2007 al 2017 ha svolto attività di ricerca presso il Cambridge Institute for Medical Research (CIMR) del Dipartimento di Genetica dell’Università di Cambridge. Ha all’attivo numerose e importanti pubblicazioni scientifiche.

Per 10 anni avete svolto attività di ricerca all’Università di Cambridge. Cosa ricordate di quella esperienza?

L’Istituto di Ricerca Biomedica di Cambridge è uno dei migliori centri d’Europa. È stata per me un’esperienza particolarmente formativa. Ho svolto ricerca biomedica applicata non solo alle malattie neurodegenerative, ma anche ad altre condizioni rilevanti dal punto di vista clinico. Abbiamo investigato il morbo di Parkinson, l’Alzheimer, la corea di Huntington e alcune forme di demenza frontotemporale. Si tratta di malattie a trasmissione mendeliana semplice: quelle di cui si occupa in Italia la fondazione Telethon. Sono patologie congenite causate da un gene mutato che provoca il progressivo sviluppo del quadro clinico. Abbiamo lavorato allo studio dei meccanismi di biologia cellulare e molecolare di base per capire meglio le alterazioni che sottendono all’insorgere della patologia.

Quale obiettivo persegue il ricercatore?

È un obiettivo ambizioso: rendere la ricerca “translational”, termine inglese che significa traslazionale. Equivale a passare dall’osservazione sperimentale alla definizione di un nuovo approccio terapeutico. La terapia può consistere in un farmaco o in un’altra metodica per curare quella specifica disfunzione cellulare che in un lungo arco di tempo può portare a scompensi. Le malattie neurodegenerative sono a lento ma progressivo decorso e colpiscono intorno ai 50 anni con un processo irreversibile. Ad esempio, nel Parkinson, la compromissione dei neuroni dello striato comporta la perdita del controllo motorio. Oggi un “field”, un campo di applicazione assai fecondo è quello delle cellule staminali che ha trovato nell’eminente biologa e senatrice Elena Cattaneo, una delle più insigni studiose. Il ricercatore non possiede la panacea, ma ambisce a rallentare l’evolversi della malattia in un doppio scopo: far avanzare la conoscenza e ritardare la comparsa dei sintomi. Si punta a migliorare la qualità della vita del paziente con una ricaduta positiva sul sistema sanitario che risparmia soldi nella gestione degli ammalati. Personalmente ho scelto di fare ricerca per una innata attitudine all’esplorazione e perché volevo fornire delle risposte ad alcune domande. Ho abbracciato il metodo galileiano: incarcerare in strutture matematiche misurabili e riproducibili i fenomeni biologici complessi. Le cellule che ci compongono assomigliano a un’orchestra sinfonica, funzionano in modo coordinato, con decine e decine di violini, di archi e di arie. Bisogna imparare ad ascoltarle. Ci vuole orecchio, abilità, attenzione, esperienza e curiosità.

Perché la ricerca è poco sostenuta e incoraggiata nel nostro Paese?

Ritengo che il problema non sia esclusivamente di tipo economico. Certo, gli stanziamenti sono pochi, la lentezza amministrativa non aiuta e il divario Nord-Sud, purtroppo, è aumentato, ma sussiste un evidente impoverimento culturale. Facciamo fatica a gestire un sistema che da molto tempo è disfunzionale su vari piani: trasporti, lavoro, scuola. I prodotti della ricerca sono surrogabili, eppure senza ricerca un paese non cresce. Non mi riferisco solo alla ricerca accademica. Pensiamo alle scoperte tecnologiche: lo smartphone, le auto elettriche.

Quale lezione vi ha dato l’Irpinia?

Ho eletto a modello onnicomprensivo mia nonna. Nonna Filomena era la signora della casa, munita di saggezza e di una raffinata cultura dell’educazione, pur non essendo istruita, scolasticamente parlando. Con i suoi insegnamenti e i suoi proverbi mi ha instillato la forza e il senso di appartenenza a questa meravigliosa terra. Noi irpini siamo resilienti. Lo abbiamo dimostrato anche con il terremoto dell’80.

Da professore universitario cosa insegnate ai vostri studenti?

Cerco di incuneare nei giovani la scintilla della curiosità. Molti di loro vengono in laboratorio che funziona un po’ come le botteghe rinascimentali fiorentine: si prova ad insegnare loro il mestiere. È un sistema simile alla radiocomunicazione. Puoi essere un ottimo canale radio, ma se dall’altro lato non c’è una buona intesa, il messaggio non arriva. Frequentare una lezione non deve essere solo un obbligo, ma anche un piacere, altrimenti finisce col diventare un’esperienza frustrante. Dal loro grado di partecipazione, dalle domande che mi rivolgono, capisco se ho innescato una favilla di interesse o un lampo di coinvolgimento.

 

 

Rachele Di Donato: Di Monteforte Irpino, è nata ad Avellino nel 1992. Laureata in Biotecnologia a Benevento, dopo la specializzazione in Scienze e Tecnologie Genetiche all’Istituto di Ricerca Biogem di Ariano Irpino, ha compiuto l’Erasmus in Portogallo discutendo a Coimbra la tesi magistrale in Neuroscienze. Dopo il tirocinio a Napoli al CNR sotto la supervisione del dott. Angelo Fontana, ha praticato attività di ricerca alla Washington University School of Medicine a St.Louis negli Usa. Attualmente svolge il dottorato all’Humanitas di Milano.

Come è stata l’esperienza di ricerca in America?

Nel 2019 ho svolto per un anno attività di ricerca al St.Louis, città del Missouri. Mi sono confrontata con medici di alto profilo, anche premi Nobel e la cosa che ricordo con più piacere è il grande spirito di squadra che accomunava noi ricercatori. In America la ricerca è tenuta in grande considerazione. Ci sono molti finanziamenti, la burocrazia non è incagliata in tempi lenti. Si lavora bene e con speditezza. Sono contenta di questa esperienza all’estero. Attualmente sto a Milano all’Università Humanitas, ma porto sempre l’Irpinia nel cuore e sono profondamente legata a questa terra dove vive la mia famiglia.

Su quali malattie si incardina la vostra indagine?

Mi occupo peculiarmente di ricerca sul cancro al colon e su alcune malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. Sto studiando sulla proteina Ackr2 assai importante nella dinamica delle metastasi. Bloccando o inibendo tale recettore, si potrebbe modulare la presenza e la diffusione delle cellule maligne.

Come si svolge materialmente la vostra attività?

Operiamo su modelli animali. Sviluppiamo copie tumorali nei topi in vivo e da lì analizziamo le cellule murine che hanno un Dna simile all’uomo. Si prova a testare farmaci che possano rallentare o arrestare determinate malattie.

Quando è nato in voi l’amore per la scienza?

Ricordo un episodio preciso, l’incontro in 3ª media con la mia insegnante di scienze. Ero così affascinata dalle sue lezioni piene di fervore, che da quel momento ho maturato la scelta di seguire questa strada. Anche da bambina amavo giocare con i microscopi o gli attrezzi del piccolo chimico che mi regalavano i miei genitori.

Quale scopo si prefigge un ricercatore?

Un ricercatore non agisce per soldi, non ha per fine il compenso economico, ma l’aiuto del prossimo. La sua è una sfida che a volte, in mancanza di spiragli, si rivela frustrante. Ma è una sfida essenziale per la cura dei pazienti. Pensiamo a quanto l’immunologia sia preziosa nell’attuale pandemia da Coronavirus con la messa a punto dei vaccini.