La scommessa di Zingaretti

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E’ una bella scommessa, o se vogliamo una equazione a più incognite, quella lanciata lunedì scorso da Nicola Zingaretti al suo Pd e al principale alleato di governo, quel movimento Cinque Stella che appare come non mai in questi giorni attraversato da tensioni al limite della rottura e del disfacimento. In sostanza, il segretario ha confermato il suo voto favorevole al referendum sul taglio dei parlamentari pur affermando energicamente di non voler cedere all’antipolitica, ha duramente polemizzato con i grillini che non hanno accettato di allearsi alle regionali, implicitamente attribuendo loro la responsabilità di eventuali sconfitte che non saranno però catastrofiche; e ha tentato di rilanciare l’azione del governo su una linea riformatrice, quella del Nazareno, che è l’unica percorribile. In proposito, le parole del segretario suonano quasi come un ultimatum anche a Giuseppe Conte: “Non stiamo al governo a tutti i costi, ci stiamo se il governo fa cose utili al Paese”. Certo, sarebbe stato più convincente se avesse aggiunto che o il governo si affretta a chiedere i prestiti del Fondo salva Stati per mettere in sicurezza la sanità, o il Pd apre la crisi; ma evidentemente a pochi giorni dal duplice appuntamento elettorale il segretario non poteva spingersi troppo oltre.

Già così, però, le incognite sono pesanti. Le condizioni poste da Zingaretti suoneranno ancora nelle orecchie dei piddini quando lunedì prossimo le urne avranno dato l’atteso responso. E allora bisognerà che la vittoria del “sì” al referendum sia sufficientemente ampia, e l’affluenza ai seggi dove non c’è il traino delle regionali così numerosa da dimostrare che l’apporto dell’elettorato democratico risulti determinante nonostante i maldipancia di numerosi dirigenti; e che nei territori non si verifichi quel cappotto che incautamente Salvini ha evocato prevedendo una vittoria sette a zero per la destra. Concretamente, la partita si gioca in Puglia e Toscana, ma è soprattutto quest’ultima regione il fortino da proteggere dall’assalto leghista. Se cadesse la Toscana, dopo l’Umbria e la Marche (date per perse a questo giro), resterebbe la sola Emilia Romagna di Stefano Bonaccini a testimoniare la tradizione di buon governo della sinistra nel Centro Italia. Già, proprio Bonaccini, che da molti alla vigilia del voto in direzione veniva descritto come pronto alla successione in caso di sconfitta del segretario, e che invece ha sorpreso tutti schierandosi con lui. Non rinunciando però, pochi giorni dopo, a mettere a verbale, in un’intervista alla “Stampa”, un’osservazione maliziosa, riferita al duello toscano ma forse non solo: “Si vince dove si ha un progetto serio e convincente. Gli accordi a tavolino senza condivisione programmatica portano solo alla sconfitta”.

Torna così il tema del programma, cioè delle riforme che devono necessariamente accompagnare il taglio dei parlamentari per esorcizzare la deriva populista che Zingaretti vuol combattere. Una partita tutta aperta il cui esito favorevole è affidato alla buona fede dei grillini, tutta da dimostrare, alle convenienze di Italia Viva e di Leu, alla capacità di indirizzo del capo del governo, che finora non c’è stata. Insomma, l’esito della scommessa va verificato, le carte decisive sono ancora coperte, e intanto sull’esito della partita si leva il monito dell’ultimo segretario del Partito popolare Pierluigi Castagnetti: “Noi votiamo un testo di referendum in cui non c’è alcuna allusione alla modifica del bicameralismo paritario. Che dopo questo referendum, questo parlamento sia in grado di integrare con altre modifiche costituzionali, è un atto di fede”.

 di Guido Bossa