La statua del Pothos dalla Dogana al Museo 

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La statua del Pothos proviene dall’edificio della Dogana di Avellino, dove fu fatta collocare con altre sculture tardo rinascimentali e d’età romana a scopo ornamentale dal quarto principe di Avellino, Francesco Maria Caracciolo, verso la metà del sec. XVII, in occasione del rifacimento della facciata dello stesso edificio di cui, probabilmente, il primo impianto edilizio risale al sec. XI. II palazzo della Dogana, edificato nei centro nevralgico della città, su un nodo viario, insostituibile in quel periodo per poter raggiungere verso sud la valle del Sabato, l’Alta Irpinia ed il territorio pugliese e, verso Nord, i centri del Partenio, della valle del Clanis fino a toccare la metropoli di Napoli con il suo importante porto, rappresentò per un lungo periodo il cuore della vita avellinese, un punto di incontro, di commercio e di attività politiche sotto il dominio dei Caracciolo. Durante il sisma del 1980, sia l’edificio della Dogana che le statue ed i busti che ne ornavano la facciata, non subirono danni. La statua del Pothos, invece, che già presentava marcate fessurazioni che ne compromettevano la stabilità (in qualche punto era assemblata con filo di ferro), non resse alle sollecitazioni telluriche; precipitò con altri elementi architettonici, riducendosi in numerosi frammenti di diverse dimensioni che, poi, vennero recuperati e depositati nel Museo Irpino. A distanza di nove anni dal sisma, la direzione del Museo Irpino, resasi conto che l’interessante monumento era caduto nell’oblio, ha investito del problema per la competenza di tutela la Soprintendenza Archeologica di Salerno – Avellino – Benevento e, per il finanziamento del suo restauro, l’Amministrazione Provinciale di Avellino, depositaria del pezzo archeologico nel Museo di sua pertinenza. Il Soprintendente, dott.ssa Giuliana Tocco che, in verità, ignorava l’esistenza e la situazione della statua, aderendo sollecitamente alla richiesta della direzione del Museo Irpino, che proponeva il recupero dell’opera a spese dell’Amministrazione Provinciale, effettuava un accurato sopralluogo per constatarne le condizioni e decidere in merito; con lettera, poi, del 29/IV /1989 diretta al Museo Irpino, autorizzava il restauro della statua e la sua musealizzazione, ritenendo in piena responsabilità che la stessa non poteva essere ricollocata insito dopo i lavori, per opportuni motivi di conservazione. Successivamente, l’Amministrazione Provinciale, relatore 1’Assessore alla Cultura, Gaetano Grasso, con delibera di Giunta del 22/V /1989, n. 712, finanziava il restauro della statua del Pothos, affidando i lavori alla ditta specializzata di Roma, Maria Gabriella D’Ippolito, già accreditata presso il Ministero per i Beni Culturali. Il monumento, ora, ricomposto e ripulito, è collocato su plinto di travertino di Tivoli nei locali del Museo Irpino, affiancato da un pannello sul quale è riportata una documentazione fotografica antecedente al suo restauro; altre fotografie, poi, illustrano le fasi più interessanti del restauro stesso, fino al suo completamento. Contemporaneamente, per dare un quadro reale della composizione originaria del pezzo, poichè, nonostante alcuni rifacimenti operati, resta mutilo di qualche sua componente anatomica, viene presentata una riproduzione del Pothos, custodito a Roma nel Museo dei Conservatori in condizioni quasi integre, direttamente l’affrontabile con l’esemplare avellinese. (….) Il Pothos di Avellino, come tutti gli altri 27 esemplari conosciuti e conservati in Musei italiani e stranieri, rappresenta una figura giovanile stante su base parallelepida. Il suo corpo è inclinato verso sinistra con una gravitazione fuori del proprio asse. Tutto il peso insiste sulla gamba destra che è tesa, mentre la sinistra è flessa ed incrociata dinanzi all’altra, con il piede che aderisce solo con le dita al suolo, quasi sulla stessa linea dell’altro piede. Il fianco destro è sporgente ed il torso flesso di lato; la spalla destra è abbassata ed un pò avanzata, con il braccio piegato davanti al petto; la mano è modellata per poter reggere un tirso per l’appoggio. La spalla sinistra è alzata con il braccio piegato in alto, ad [angolo retto], da cui pende un voluminoso panneggio a forma di fusto scanalato che si stende con il lembo a triangolo sul corpo di un’oca, affiancata al giovane, ma in posizione più avanzata. Mancano la testa, parte del pettorale sinistro con il panneggio superiore ed il tirso. Il tirso è un attributo del Pathos, ed in questo caso, anche un elemento pratico di appoggio; l’oca, invece, oltre ad essere un attributo, è contemporaneamente un sostanziale ornamento architettonico. Il Pothos è copia romana da originale greco, attribuito a Skopas dallo studioso Adolfo Furtwangler il quale, basando la sua ricerca sul metodo filologico e comparativo, perfezionato dalla scuola tedesca dell’800, potè riconoscere la creazione scopadea di questo tipo statuario, confrontandolo con l’esemplare riportato nella gemma di Berlino e considerando le fonti letterarie, (Pausania, I, 43, 6 e Plinio, 36, 25) che appunto riferiscono di quattro sculture: Pathos, Eros, Himeros ed Afrodite che il grande scultore greco ideò per il tempio di Afrodite a Samotracia e a Megara. Precedentemente al Furtwangler, alcuni archeologici dell’800, per uno scarso senso analitico ed estetico, avevano interpretato quest’opera di Skopas come un Apollo, fraintendendo il ritmo complesso e singolare del giovane con l’atto di suonare la lira, restaurata nelle opere conservate nel Museo Nazionale di Napoli, a Leningrado nella collezione Monferrand, al Louvre di Parigi, nei Musei Capitolini di Roma, oppure con il gesto di tirar frecce dal turcasso, come nella copia restaurata al Parco di Versailles. Figlio di Afrodite e seguace di Dionisio, Pathos è presente nei cori delle Cariti, delle Ore, delle Menadi. Eschilo lo canta come divino figlio di Afrodite; Archiloco lo definisce l’amoroso desiderio che disciogliendo le membra, signoreggia; Euripide lo vede nelle Baccanti in mezzo all’inebriante thiasos dionisiaco. Senza dubbio Pothos è una divinità del desiderium amoroso che si differenzia dai due fratelli: Himeros ed Eros. La sua concezione astratta ed intellettualistica eccitò più la fantasia dei poeti e e lei filosofi che quella dei pittori e degli scultori. Platone, infatti, nel Cratylos, 420, fissa il significato simbolico di queste tre divinità dell’amore, definendo Pothos il desiderio inquieto e commosso verso l’oggetto lontano; Himeros l’irresistibile brama dell’oggetto dinanzi agli occhi, Eros, l’amore attivo. Questo desiderium inquieto e commosso di Pothos che signoreggia, disciogliendo le membra, come cantava Archiloco, si evidenzia «nell’abbandono del corpo sinuoso che si sostiene lateralmente al tirso dionisiaco, nell’irrequieto incrocio delle gambe, nel patetico rovesciamento della testa dagli incavati occhi appassionati e dalle labbra dischiuse » (Becatti}, come si può vedere nell’opera conservata nel Museo dei Conservatori. Il mantello ricadente dalla spalla sull’oca, riempie il vuoto tra il corpo ed il tirso e forma un efficace contrasto con il lucente corpo di una molle carnosità, tipica del IV sec. a. C. Il Pothos, in definitiva, è una creazione originale, soffusa, appunto, di quell’atmosfera romantica del IV sec. greco che chiarisce ciò che Skopas sente di quel romanticismo del suo periodo, soprattutto dal lato passionale e patetico, confermando quanto si era già compreso di alcune superstiti sculture create da lui per il tempio di Athena a Tegea verso il 350 – 340 a. C. * Contribuirono al recupero i professori Armida Tino, Carlo Franciosi e gli studiosi Adamo Candelmo e Antonio Rigione ai quali si esprime doverosa riconoscenza insieme alla questura di Avellino che si impegnò per il trasporto dei pezzi più pesanti al Museo con mezzo proprio.

Di Consalvo Grella pubblicato il 20/10/2013 sul Quotidiano del Sud