L’arbitrio del più forte

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Da pochi giorni è uscito il nuovo libro di Marco Follini “Via Savoia, il labirinto di Aldo Moro”, un ritratto dello statista barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio del 1978. Follini, da giovane dirigente democristiano, ha conosciuto bene Moro e ne rivela nel testo aspetti meno noti e addirittura qualche segreto privato relativo alla sua vita quotidiana all’interno del suo studio nel quartiere Salario a Roma. Un luogo lontano, simbolicamente, dal potere romano. Qualche anno fa nell’aula del Senato proprio Follini ricordò che nel 1975, accompagnò Moro alla Fiera del Levante di Bari, un lungo cammino a piedi per visitare tutti gli stand sotto un caldo opprimente. Dopo mezza giornata – racconta Follini – tornammo alla macchina, che a me appariva una sorta di miraggio, ed a quel punto si avvicinò a Moro un signore molto semplice, con l’aria dimessa, con i vestiti un po’ in disordine e con perentorietà gli disse che all’altro capo della Fiera si era dimenticato di visitare il padiglione dei formaggi del paese di Rutigliano. Moro, con un sorriso, scese dalla macchina, si rimise in cammino ed arrivò all’altro capo della Fiera. E’ un episodio da niente – prosegue Follini – ma denota un qualcosa della sua personalità. Per Moro la politica era un esercizio di pazienza, un’attività per così dire al dettaglio, mai all’ingrosso; un’attenzione mirata alle persone, ad ognuna di esse. Per lui non c’era mai la folla, la massa, il plebiscito; c’erano le persone ed ognuna di esse era, per dirla con le sue parole, un universo. Questo episodio minuto, così ben descritto da Follini, è molto attuale oggi soprattutto alla luce di quanto è avvenuto pochi giorni fa. Hanno fatto il giro del mondo le immagini del discorso di Putin allo stadio Luzhniki di Mosca, un evento celebrativo per ricordare l’ottavo anniversario della riunificazione della Crimea alla Russia e intitolato, non casualmente, “Za mir bez nazisma! Za Rossiyu! Za Prezidenta!”, “Per un mondo senza nazismo! Per la Russia! Per il presidente!”.

Una grande scenografia e l’utilizzo di un’arena così ampia, dove si è disputata la finale dei mondiali 2018, sono il segno di una direzione opposta a quella indicata tanto tempo fa da Moro. Il presidente russo sceglie deliberatamente di parlare alla folla che ha l’unico compito di applaudire senza dissentire. Duecentomila persone tutte con la bandierina nazionale, musica e fari da discoteca, in un’atmosfera costruita per ammaliare un Paese, per abbindolarlo. Solo propaganda o per usare la profezia dello scrittore ceco Milan Kundera: Kitsch e Morte. L’opposto della politica che deve convincere ogni singolo individuo, che mette al centro la persona come ci ha insegnato Moro. Gli obiettivi di Putin sono invece l’opposto: al centro della scena c’è soltanto lui che usa il terrore e la forza contro la popolazione civile e che semina morte e distruzione. Una strategia che però sta anche rafforzando il patriottismo e l’identità nazionale degli ucraini che non vogliono rinunciare alla libertà. Nel suo lungo percorso politico Moro si è sempre battuto per allargare le basi della democrazia che tra gli straordinari pregi ha anche la possibilità di mettere a confronto posizioni al limite del paradosso ma portate avanti da chi, con dovizia di argomentazioni, riesce perfino a giustificare le ragioni dell’aggressore sostenendo che, una grande potenza guidata da un autocrate, si sta solo difendendo da chi ha deciso di allargare ad Est l’influenza della Nato. Il punto chiave, che salda ogni cosa, è proprio il rifiuto da parte di Putin dei valori e delle regole democratiche calpestate dal nuovo zar, per lui le persone non contano a decidere è solo l’arbitrio del più forte.

di Andrea Covotta