“Le ragioni del Buddha”, intervista a Diego Infante

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Di Vincenzo Fiore

Dopo la pubblicazione de “La ragione degli dèi”, il saggista irpino Diego Infante torna in libreria con “Le ragioni del Buddha” (Meltemi Editore), provando a delineare un’alternativa al cosiddetto paradigma occidentale senza disconoscerne i presupposti.

Nel mondo globalizzato e in un Occidente “secolarizzato” c’è ancora spazio per affermare le “ragioni del Buddha”?

Inevitabilmente la secolarizzazione è il motore di tanti processi: al negativo, in quanto comporta l’appiattimento più deteriore, al positivo in quanto consente alle alternative di farsi luce. A tal proposito mi piace ricordare i seminari sul buddhismo tenuti dal Prof. Thurman a New York raccontati da Tiziano Terzani in “Un altro giro di giostra”: vi si evidenziava con ironia come sia l’Occidente post-moderno che il buddhismo condividano il concetto di “vuoto”. Significati molto diversi, certo, ma il nichilismo, in qualche caso, ha la possibilità di trasformarsi nel suo contrario.

Il testo sembra auspicare una sorta di superamento della Filosofia Occidentale, a favore di quella Orientale. È davvero possibile questo passaggio?

Da questo punto di vista, c’è chi come Giangiorgio Pasqualotto vi è riuscito. La filosofia occidentale, del resto, in alcuni casi ha detto cose simili: penso a Eraclito, a Plotino e ai neoplatonici, poi ai mistici medievali (su tutti Meister Eckhart). Come diceva Schopenhauer: «Buddha, Eckhart e io insegniamo la stessa cosa». Il vero punto, però, è che l’approccio critico, caratteristico della filosofia occidentale (che infatti è principalmente teoria), può essere la molla per ripensare al senso stesso della filosofia (e giungere alla vita pratica, in un’accezione più orientale). 

Nonostante la ricca ed eterogenea bibliografia, la figura di Tiziano Terzani risulta essere un faro per il percorso tracciato. Quanto ha influito sul suo pensiero?

Terzani è stato un faro non solo per me ma per tutti i “delusi”: egli ha dimostrato di essere coerente fino in fondo, attuando quel ribaltamento di prospettiva di cui parlavo poc’anzi. La sua parabola si può riassumere così: dal viaggio fuori al viaggio dentro, oltre i fatti, verso quella Verità che a essi soggiace. In breve, «dal piccolo al grande» e «la cura è la mente».

Parlando della differenza fra tradizionalismo e tradizione, lei parla del rischio di una moralizzazione di ritorno, che cosa intende con questa espressione?

Potremmo dire: il mondo è decadente, quindi va bene tutto purché il nichilismo scompaia. Compresa la guerra. Questa è la strada, ad esempio, degli integralisti islamici. Il buddhismo, dal canto suo, offre soluzioni molto diverse. Ricordiamo che per la dottrina orientale non esiste un “io” separato e indipendente: il mio benessere dipende da quello altrui e viceversa. Per cui, se da un lato l’interpretazione occidentale del buddhismo risponde all’esigenza di porre un argine al conflitto sociale, al tempo stesso non fornisce alibi con cui abdicare al rispetto che si deve a ciascun essere. Il nemico, asserisce la dottrina del Buddha, è dentro, non fuori.

Il suo non è un saggio compilativo, ma un saggio di prospettiva. Si possono trarre anche conseguenze politiche dall’intero discorso?

Certamente. Chi come me, per riprendere Montale, vive «il vuoto ad ogni gradino», non fa che cercare risposte a quell’eclissi di senso di cui Nietzsche fu testimone più di un secolo fa («manca il fine; manca la risposta al “perché?”»). Di certo nella mia vita ho avuto modo di cogliere sfumature sempre più ampie fino a riconsiderare il valore della tradizione: proprio quell’istituto di cui, fino a non molto tempo fa, contribuivo a decretare la fine. Ecco allora il senso dell’alternativa buddhista: tradizione sì, ma senza eccessi, per di più vicina agli orientamenti di quel razionalismo etico cui noi occidentali siamo tanto attaccati (e che infatti per essere buddhisti dovremmo accantonare!).