L’epidemia e le manovre

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Ora che la seconda ondata dell’epidemia è giunta a metà del suo percorso letale, se ne possono osservare nitidamente le ripercussioni sulla società e sulla politica, o meglio sulle diverse politiche nazionali. Balza agli occhi il caso degli Stati Uniti, dove il virus ha messo a nudo l’inganno del trumpismo sovranista aprendo gli occhi a molti elettori che quattro anni fa si erano fatti cullare dalle promesse dell’America first svegliandosi poi bruscamente in faccia al tradimento del conservatorismo compassionevole caro ai presidenti repubblicani e con i morti scaricati nelle fosse comuni del Bronx. A quelle latitudini, insomma, lo spirito pubblico si è come risvegliato dal letargo: i primi a denunciare il fallimento del tycoon diventato presidente sono stati i predecessori della sua stessa famiglia politica, e gli elettori hanno seguito a valanga. Molti Stati hanno cambiato colore.

Da noi, invece, è andato e sta andando diversamente, purtroppo: la tattica prevale sulla visione strategica, le manovre di palazzo inquinano la politica e l’orizzonte resta oscuro. Solo il chiaro ammonimento del Quirinale sull’inevitabilità dello scioglimento anticipato delle Camere in caso di caduta del governo ha finora scongiurato una crisi, ma le fibrillazioni non mancano. E così se appena una settimana fa i partiti offrivano una prova di grande responsabilità votando all’unanimità il quarto aumento del deficit dall’inizio dell’anno, ecco che, quasi pentiti del coraggio appena esibito davanti alle nuove generazioni che quel debito dovranno onorare, si rifugiano ognuno nel proprio consolante perimetro tradizionale. Silvio Berlusconi, tentato da un impossibile ritorno al centro dell’agone a dispetto dell’età e del declinante carisma, cerca invano un punto di equilibrio fra gli alleati sovranisti in Italia e i popolari della Merkel in Europa, ma rischia di incespicare rovinosamente negando il suo assenso alla riforma del Meccanismo salva Stati (il Mes) che è un passo in avanti verso l’integrazione monetaria. Così, a meno di imprevedibili manovre prima del cruciale voto di mercoledì prossimo, rischia di trovarsi isolato in Europa e con mezzo partito contro e quindi definitivamente azzoppato oltre che sempre meno credibile in Italia.

Non sono da meno i Cinque Stelle con il loro vero capo politico Luigi Di Maio, protagonista di uno spettacolare testa-coda: prima riconosce il fallimento della bandiera del Reddito di cittadinanza agitata con orgoglio dal balcone di palazzo Chigi; subito dopo ne fa sventolare un’altra, altrettanto ideologica e ingannevole, ribadendo un no definitivo al finanziamento comunitario delle spese sanitarie, che oltretutto ci penalizza nell’attesa dell’arrivo (ma quando?) dei fondi di Next generation, ancora parcheggiati a Bruxelles. In tale confusione, Il presidente Conte non trova di meglio che continuare a sfidare Parlamento e Regioni a suon di Dpcm, scatenando la rabbia di Giorgia Meloni e il disappunto del Pd di Zingaretti (quindi non tutto il Pd) che si chiede fino a quado gli convenga continuare a fare scudo a un premier così parco di riconoscimenti al fedele scudiero del Nazareno.

C’è poco da illudersi: questa è l’Italia che dal primo dicembre ha assunto la presidenza del G20, l’organismo che riunisce le maggiori economie del mondo (Cina, India e Russia comprese), che dovrebbe sobbarcarsi l’arduo compito di portare il pianeta fuori dalla crisi pandemica e dal ristagno economico che ne è derivato. Un impegno che metterà a dura prova la nostra credibilità, come Nazione e come Governo.

di Guido Bossa